Bestie di scena di Emma Dante e la pro-vocazione dello sguardo

Bestie di scena, l’ultimo lavoro di Emma Dante – coprodotto da Piccolo Teatro di Milano, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo e Festival d’Avignon – è uno spettacolo in cui lo sguardo è fondamentale. E questo fin dal momento in cui si entra in sala e si assiste al lungo training, condotto a turno da uno degli attori, avendo accesso a qualcosa che normalmente avviene dietro le quinte ed è celato allo sguardo dello spettatore. L’aspetto voyeuristico è chiamato direttamente in causa quando, poco dopo l’inizio, i quattordici attori iniziano a spogliarsi e rimangono completamente nudi per tutto il resto dello spettacolo. Se non bastasse, la stessa Emma Dante nelle note di regia dichiara: «Per un tempo lungo delle prove ci siamo concentrati sullo sguardo, siamo stati ore a guardarci io e gli attori, loro guardavano me e io li guardavo, senza parlare, senza giudicare. All’inizio erano vestiti, poi in mutande e alla fine nudi. Si sono spogliati piano piano, ognuno col tempo che serviva. Poi, ottenuto ciò che volevo, io spettatrice, colei che se ne sta seduta sulla sedia e guarda, ho cominciato a sentire la pena del mio sguardo, provando uno strano senso di colpa di fronte alla scena nuda e ai corpi nudi».

Il riferimento al capitolo 3 della Genesi in cui è proprio la vista a perdere Adamo e Eva è evidente: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò […] Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». È questa la situazione in cui vengono a trovarsi le “bestie di scena” della Dante che si coprono, singolarmente e a vicenda, seni e genitali. Una comunità in fuga, senza una terra promessa a cui approdare, costretta a misurarsi, di volta in volta, con gli elementi che arrivano da fuori scena: l’acqua e il fuoco, rappresentato da petardi che evocano anche la guerra; che trova il modo per divertirsi (con la palla e la bambola parlante o i carillon che permettono alla ballerina di danzare), per allenarsi (la spada), per purificarsi (i catini e le spugne) e poi nuovamente scivolare, letteralmente, sulla superficie viscosa e ricominciare tutto daccapo. Riecheggiano le note di Only You che permettono a una coppia di ricordare i passi di danza, interrotti da un’improvvisa pioggia di noccioline (che riporta in scena La scimia). E poi dall’alto calano le scope, che non vengono cavalcate come succedeva in Miracolo a Milano per raggiungere un mondo migliore, ma, dopo essere state utilizzate, vanno a comporre la struttura di una giostra in cui questa umanità dolente si muove, destinata a ripetere sempre gli stessi gesti, come burattini in un teatro.

Emma Dante cita se stessa e scarnifica la drammaturgia, spoglia la scena e gli attori andando all’origine, al grado zero della rappresentazione, nella caverna in cui si muovono le sue ossessioni e le nostre. Ed è palese fin dal titolo: non siamo davanti ad “animali da palcosenico”, ma a “bestie di scena” (dall’espressione francese “bêtes de scène” che in italiano risulta edulcorata, perdendo l’aspetto belluino), come rivela sempre la Dante dichiarando che lo spettacolo «ha assunto il suo vero significato nel momento in cui ho rinunciato al tema che avrei voluto trattare. Volevo raccontare il lavoro dell’attore, la sua fatica, la sua necessità, il suo abbandono totale fino alla perdita della vergogna e alla fine mi sono ritrovata di fronte a una piccola comunità di esseri primitivi, spaesati, fragili […]». E allora non servono le parole, e nemmeno i vestiti che fioccano copiosi. Bastano i corpi e i versi che questi corpi emettono e lo sguardo degli spettatori. E degli attori. Che alla fine, superata ogni vergogna, si stagliano frontali davanti al pubblico e guardano a loro volta.

 

Foto di Masiar Pasquali

 

Milano Teatro Strehler dal 9 al 20 maggio