Quand’ero bambino avevo il culto di Pippo Baudo. Non di Baudo in toto, ma di Baudo direttore artistico di Sanremo. Anzi. Il culto dei Pippi. Perché c’era anche l’altro Pippo siculo, il maestro Pippo Caruso, l’uomo che ha inventato parappappappaparà parappappappaparà parappappappa parara para pa-ra-ra perché Sanremo è Sanremo. Un caposaldo della cultura musicale pop martello di questo paese, al pari di Nel blu dipinto di blu e Andiamo a comandare di Rovazzi. Il motivetto che ci piace tanto e che fa parappappappaparà parappappappaparà parappappappa parara para pa-ra-ra e che chiunque ha fischiettato sotto la doccia almeno una volta, tra una terra dei cachi e un fin che la barca va. Per anni ho sognato la direzione artistica di Sanremo come traguardo ultimo della mia vita professionale, ispirandomi anche a una divinità come Marino Bartoletti di cui da quattro decenni cerco con pessimi risultati di emulare l’onniscienza in materia. Per anni. Per molti anni. Poi, un giorno, il sogno è svanito. Responsabile della doccia fredda: Carlo Conti. Perché sarà anche l’uomo giusto per riportare gli ascolti in quota nell’era della disintegrazione dell’audience e dei palinsesti 2.0, ma è quello sbagliato per tutto il resto. Perché, che il dio della canzonetta lo fulmini, ha spezzato il patto di sospensione d’incredulità. Perché fino al 2014 era stato bello fingere di credere che esistessero davvero le commissioni di selezione, i Campioni convocati in virtù del valore delle canzoni sottoposte a giudizio e non per discendenza da talent o da imposizione di quel che resta dell’industria, le giurie popolari radunate con quegli insondabili ed esoterici criteri. Eccetera. Perché Carlo Conti è la versione cattiva e oscura del Mangiasogni di Michael Ende. Perché Carlo Conti è il motivo per cui ho rinunciato a inseguire Sanremo, ma non ho rinunciato a seguirlo. E siccome nessuno mi ci ha mai mandato ufficialmente come cronista, ma per fortuna viviamo in un’epoca tecnologicamente meravigliosa e dislocante, non ci andrò fisicamente neanche quest’anno ma è con immenso orgoglio che accetto l’incarico di Duels come inviato in pantofole dell’edizione 2017. Sprofondato nel divano di casa, in condizioni igieniche che ora di sabato sera presumo saranno vergognose (data la mia incapacità congenita una volta partita la kermesse di distogliere l’attenzione e lo sguardo non solo dallo schermo delle cinque serate ma anche da qualsiasi collegamento mattutino, pomeridiano, notturno, televisivo, radiofonico e web correlato all’evento), circondato da generi di conforto ad alto contenuto di zuccheri e grassi saturi non immemori del fantozziano frittatone con cipolle, sarò qui. A dare voti, a vergare pagelle, a rischiare l’occlusione delle arterie e il colesterolo a 300. Per voi, ma soprattutto per me. Senza obiettività, e con tutta l’acredine dei mediocri e dei poveri: una piccola fiammiferaia della canzone, ancora una volta e per sempre costretta a spiare il bel mondo e il suo calore dal bordo della strada. Si va a cominciare. Arrivederci a domani.