Gioco di specchi, il teatro (di Rifici) si dà innanzitutto, ancorché come doppio sogno, quale incubo del doppio, come luogo di riflessione e spazio di rifrazione, proiezione e deformazione (perdizione?). Non a caso la scena d’esordio di queste Relazioni pericolose è un’anima divisa in due-llo: de Laclos è introdotto dalla teoria del conflitto filtrata da René Girard, portando von Causewitz all’estremo: «l’Uomo diventa veramente Uomo solo nella Guerra». Una visione antropologica senza vie di scampo. Ecco che la seduzione come conquista, mossa dalle sue leggi spietate, costituisce lo spazio narcisistico e infernale della ripetizione e del medesimo: «Questa legge della reciprocità vuole che coloro che si affrontano, man mano che si osservano e cresce il loro sentimento ostile, si assomiglino sempre di più. La tendenza all’estremo è dunque una legge implacabile. Una cosa comunque è sicura: il conflitto avrà luogo. Esso si scatenerà nel momento in cui la somiglianza fra i due avversari avrà raggiunto un punto di non ritorno». Come in uno specchio, appunto, la scherma uniforma, dietro il casco/maschera/protezione (rete a pesca che richiama la struttura che ricopre i microfoni e rinvia a uno sguardo entomologico), nel rituale codificato dello scontro, i due avversari che, con pose speculari, si corrispondono, si fanno eco, e, infine toccandosi, si uccidono, svelandosi come una macchia umana di Rorschach. Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più bellico del reame?, si potrebbe anche (tra)dire. E le relazioni pericolose sono quelle instaurate e scatenate dal linguaggio e dai suoi inganni. Il bianco dei costumi è del resto uno schermo vuoto (pagina intonsa), pronto ad accogliere le proiezioni che s’incaricano di riflettere una teoria di ombre, gestualità e spruzzi, essenza sfocata e liquida, sangue e liquido amniotico, ferita e feritoia, in una sequenza di cul-de-sac-Rifici, capri espiatori, mantidi religiose, germogliazione e contaminazioni, che vede gli attori operare attraverso (e attraversati da) luci e trasparenze, lenti e contagocce, con attitudine gestuale e sperimentale, come se ci trovassimo in un teatro anatomico e in un laboratorio militare: lo spettacolo è mortale, l’esperimento letale. Contrappunto visivo della lama della parola è arma di questa guerra.
La macchina scenica è fatta di tecnologia anacronistica e analogica (proiettori, bobine e vinili su cui rimane traccia, registrazione, solco), la voce viene potenziata e scomposta, esposta nella sua nuda grana e rifratta in echi, riverberi e deformazioni, da una fallica varietà di microfoni – staffette, scettri e fioretti di una parola detta/amplificata, che graffia e taglia, minaccia e seziona, aggredisce e sminuzza, come foglio di lettera affilata. Il romanzo epistolare portato a teatro dalla drammaturgia di Rifici con Livia Rossi, prende corpo, forza, ci interroga e ci viseziona, come l’interrogativo che pronuncia: «L’effetto della voce su di noi è davvero così potente?». Ecco che la polifonia del romanzo per lettere si fa trafiggere e contaminare da altre scritture (Artuad e Nietzsche, Dostoevskij e Pasolini, oltre a Diderot e Voltaire) senza soluzione di continuità, e la civiltà della conversazione esprime, attraverso una retorica raffinata e spietata, tutta la possenza, il grumo di contraddizioni e la violenza pre-rivoluzionaria che ha in corpo e contiene in nuce. Se gli inserti testuali sono (ec)citazioni che servono a far parlare ancora più esplicitamente un testo già attualissimo (che disserta, al fondo, di peste e guerra, e di quanto queste catastrofi siano espressioni/riflessi dell’umano), la messa in scena di Rifici, avvalendosi di attori di solida esperienza (Elena Ghiaurov, Monica Piseddu, ed Edoardo Ribatto) e della vibranza ancora credibilmente post-adolescenziale di Livia Rossi e Flavio Capuzzo Dolcetta (quasi novelli Romeo e Giulietta, in questa danza di poco amore e molta morte), inquadra la scena in uno spazio chiuso come un ring crepuscolare, tagliato da neon e stratificato da retini attraverso lavagne luminose che fanno da contrappunto, insieme didascalico e disvelante, alla drammaticità impassibile e controllata della parola (nel convincente progetto visivo di Daniele Spanò).
Così il disegno sonoro (curato da Federica Furlani, anche in scena) sovrappone e alterna con abilità e suggestione elettronico e settecentesco, strumento ad arco e distorsione, umano e disumano, tessendo insieme alle voci stesse degli attori una partitura precisa, ipnotica e penetrante. Ecco che Le relazioni pericolose di Rifici, ancorché un trattato implacabile sulla seduzione, una disanima pre-psicanalitica dei rapporti di desiderio e di potere, racconta le molteplici forme della parola (romanzo, teatro, voce, scrittura), e la sua capacità di farsi arma, strumento di manipolazione e sopraffazione, trappola e annientamento. Così il verbo disfa la carne e, lungi dal nobilitare l’uomo, lo inchioda (crocifigge?) alla sua essenza più crudele e spietata. Il lupo in teca di vetro che, hirstianamente, attraversa a un certo punto la scena ne è l’epitome hobessiana, di straniante efficacia.
Lugano, LAC, 7 marzo (prima internazionale)