Il lockdown come occasione perfetta per rispettare l’unità di luogo della tragedia classica, come spazio (fisico e mentale) per replicare/rivivere la paralisi novecentesca del teatro dell’assurdo. Aspettando Glovò, si potrebbe così dire, giocando ma non troppo con i nostri tempi, in cui l’attesa (messianica, teologica, metafisica) sembra prendere la declinazione più meschina, consumistica ed effimera di un acquisto online, il cui annuncio passa per la banale chiamata al citofono. Ed Emanuele Aldovrandi, astro nascente della drammaturgia italiana, sceglie di mettere in scena la pandemia e il confinamento quasi in presa diretta, registrando/restituendo/rimontando con abilità e orecchio il gioco al massacro contemporaneo attraverso le forme del grottesco e virate surreali, con il ritmo giocoso della commedia e l’eco della satira sui cliché ripetuti e incastrati su noi stessi. In un ceruleo dipinto di ceruleo (scene di Francese Fassone e costumi di Costanza Maramotti secondo un bigio monocromatico un po’ The Truman Show, un po’ carcerario), due uomini, e poi due coppie, s’incontrano e si scontrano in quell’ora d’aria sospesa e vuota che si dà in un cortile condominiale ai tempo del contagio, gabbia per volatili che circoscrive la libertà di un’umanità mutante, uomini che rischiano di diventare tacchini (e far la loro fine?), assemblea condominiale di uomini soli e incattiviti, resa dei conti dell’umanità, interrotta solo da fattorini di scatole mai aperte.
Due le immagini che vengono in mente: quella dell’uccellino, evocato in una nota della Coscienza di Zeno, che, quando gli aprono la gabbia, esita a scappare dalla clausura, e decide di non fuggire: ha paura di rimaner chiuso fuori. Sublime paradosso che Svevo suggerisce in un’immagine incredibile e verissima. E poi Karl Popper, il grande filosofo della scienza, che racconta del tacchino, si proprio lui, che, fiducioso e felice, ogni santo giorno, tira fuori il collo dalla gabbia e viene amorevolmente nutrito, finché non arriva il Thanksgiving, e quel giorno lì il collo glielo tirano, falsificando ogni precedente teoria sulla bontà e generosità di un mondo che pareva fatto per prendersi cura di te. E questi uomini in gabbia sperimentano, attraverso un dibattito che ricalca discussioni da bar e talk televisivi, risse sui social e dibattiti di cronaca, dilemmi e nevrosi, frustrazioni e dubbi, che ci hanno fatto essere e non essere liberi fino a pochissimo tempo fa (ancora oggi?). Aldovrandi, con una regia misurata e concentrata, e cinque giovani attori di talento (Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi), scrive dialoghi serrati, in cui è facile rispecchiarsi e risentirsi (nei due sensi della parola), con uno strano effetto di vedere qualcosa di vicinissimo eppure remoto: un’archeologia del presente, o una distopia in costume, che ci racconta, anche attraverso la prigionia degli argomenti precostituiti e delle frasi fatte, una realtà che pare sempre premasticata, già detta. In tal senso lo specchio appare la prigione del nostro sguardo spettatoriale, e l’elemento parossistico (esplosivo e mutante) del finale, un rivelarsi del mostruoso ma anche una promessa di libertà alata, o di tacchinesca prigionia/illusione. La porta aperta. Eppure vi è l’incapacità forse di immaginare un altrove. Il testo e lo spettacolo, mimetici dell’oggetto, sembrano a tratti schiacciarsi sul presente, rimanerne prigionieri, non sempre produrre lo scarto di una visione. Allora andiamo? Sì, andiamo. Didascalia: non si muovono.
Foto di Luigi De Palma
Spettacolo visto al Teatro Filodrammatici di Piacenza il 10 ottobre.