È una mostra inusuale quella realizzata dal regista Wes Anderson e dall’illustratrice Juman Malouf, che dopo essere stata presentata al Kunsthistorisches Museum di Vienna tra novembre 2018 e aprile 2019, è approdata negli spazi del Podium di Fondazione Prada a Milano lo scorso 20 settembre e sarà visitabile fino al 13 gennaio 2020. Inusuale in quanto le metodologie di ricerca e selezione dei 537 elementi che costituiscono il progetto espositivo, opere d’arte e oggetti provenienti dalle 12 collezioni del Kunsthistorisches Museum stesso e dagli 11 dipartimenti del Naturhistorisches Museum, non seguono i canoni accademici della curatela contemporanea: Anderson e Malouf hanno operato, infatti, per aree tematiche – ritratti di nobili, ritratti di bambini, oggetti di colore verde, miniature di strumenti di misurazione del tempo, scatole, e molto altro ancora – creando una Wunderkammer organizzata secondo i criteri del giardino all’italiana. Ad accogliere il visitatore, il Ritratto di Isabella d’Este (1600-1601) di Peter Paul Rubens, a cui seguono i ritratti cinquecenteschi degli ipetricotici membri della famiglia Gonsalvus, vetrine di smeraldi, un costume in seta shantung del 1978 riconducibile a una produzione austriaca di Hedda Gabler di Ibsen, e ancora busti, bambole Inuit, rane e serpenti sotto vetro, portasigarette, conchiglie, meteoriti e sculture in avorio, fino al piccolo sarcofago egizio di un toporagno risalente al IV secolo a.C. (In apertura Installation view, Foto Andrea Rossetti, Courtesy Fondazione Prada).
Se da un punto di vista curatoriale l’operazione appare spiazzante, letta da un punto di vista cinematografico risulta totalmente sensata, se non addirittura geniale. La coppia ha messo in mostra il congelamento della fase di pre-produzione di un film, riportandoci alla mente la pratica di Stanley Kubrick di inviare i suoi assistenti a fotografare soggetti selezionati per categoria, funzionali alla realizzazione delle scenografie (nel caso di Eyes Wide Shut (1999), ad esempio, palazzi con negozi al piano terra, ville con un particolare tipo di cancellata, decorazioni natalizie, ecc.). In questo caso i curatori hanno agito in prima persona: Wes e Juman, un po’ come Sam e Suzy di Moonrise Kingdom (2012), hanno affrontato un lungo e difficoltoso viaggio, culminato in anni di pazienti e talvolta frustranti negoziazioni, aspri dibattiti e confronti irrazionali, condotti in maniera non scientificamente corretta ma con la curiosità di chi vuole puntare una “luce negli angoli”, come sostiene lo stesso Anderson, e il cui punto di partenza sono proprio i due edifici viennesi, perfettamente speculari, come le inquadrature simmetriche che da sempre contraddistinguono stilisticamente le pellicole del regista texano. Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori viene a costituirsi dunque come una riflessione sul museo stesso in quanto istituzione, e sul ruolo centrale che le collezioni assumono nel contesto museale, come vengono custodite, presentate e vissute.
Registi e illustratori, si sa, lavorano su forme bidimensionali e forse per questa ragione Anderson e Malouf, in collaborazione con l’architetto Itai Margula, hanno optato per una soluzione allestitiva articolata in stanze e vetrine, in modo da ritrovare quella bidimensionalità tipica dello schermo, non senza però una giocosa strizzata d’occhio al tema del giardino segreto, che in mostra viene formalizzato attraverso una vetrina allestita orizzontalmente e per la cui fruizione lo spettatore deve inginocchiarsi e infilare letteralmente la testa nel display. Non è la prima volta in Fondazione Prada per Wes Anderson, che nel 2015 ha infatti progettato, ispirandosi alle atmosfere dei tipici caffè della vecchia Milano, il Bar Luce, pensandolo come un luogo in cui trascorrere serenamente i pomeriggi, avvolti da un’atmosfera retrò. E così la Wunderkammer nel Podium, che per essere analizzata approfonditamente richiederebbe pomeriggi, anzi giornate intere, offre al visitatore molteplici livelli di lettura: se da una parte il fruitore o l’esperto di arte contemporanea ha la possibilità di osservare opere scelte seguendo un approccio non accademico e interdisciplinare, dall’altra, chi si occupa di cinema nonché gli appassionati di Wes Anderson troveranno affascinante ricercare analogie con la sua produzione cinematografica, come la simmetria e la pulizia delle inquadrature, la bizzarria che si trasforma in qualcosa di nostalgico, il superamento del concetto di “diverso” attraverso il forte senso di comunità che unisce i suoi personaggi e che in questa sede invece unisce gli oggetti: i ritratti di famiglia ricordano infatti I Tenenbaum (2001) e Fantastic Mr. Fox (2009); dalla stanza dei ritratti di bambini potrebbe tranquillamente spuntare Ragazzo con mela di Gran Budapest Hotel (2014); il sarcofago del toporagno, nel suo ricordarci di come gli egizi praticassero la mummificazione anche agli animali, ci rimanda alla reale necropoli dei cani di Saqqara e all’immaginaria isola giapponese dell’Isola dei Cani (2018). Ma esiste un ulteriore livello di lettura, ovvero quello di chi non conosce né il regista né l’arte contemporanea ma a cui l’esposizione offrirà molteplici punti di ingresso uniti da un minimo denominatore: la meraviglia.