Uno spettacolo sulla crisi nella sua accezione più ampia. Economica, sociale, ideologica, ma soprattutto esistenziale. È A-Men. Gli uomini, le nuove religioni e altre crisi, one man show di e con Walter Leonardi, che ha scritto lo spettacolo con Carlo Giuseppe Gabardini, con la collaborazione alla regia di Paolo Li Volsi, anche autore delle musiche. Il protagonista, che si chiama Walter per l’appunto, prende atto della crisi davanti agli spettatori e fa compiere loro un viaggio attraverso le varie risposte possibili a turbamenti, incertezze o insicurezze più o meno grandi che ognuno di noi attraversa. Inevitabile scatta l’identificazione. Uno spettacolo che denuncia i falsi miti, in cui si ride molto e, a tratti, amaro. Ne abbiamo parlato con Walter Leonardi.
Partiamo dal titolo che hai scelto: A-men.
Volevo una parola unica, un titolo forte che potesse rimanere impresso. Avevo quindi pensato ad Amen, poi siccome fondamentalmente sembra sempre che parlo di altre cose, ma poi parlo sempre di una sola cosa, ovvero dell’uomo contemporaneo e della crisi che attraversa, mi sono reso conto che nella parola “amen”, staccando la “a” veniva fuori la parola “uomini”, allora mi piaceva anche giocare sull’articolo singolare associato al sostantivo plurale perché si parla di uno per poi, spero, parlare di molti.
Si può dire che sia uno spettacolo sulla crisi dei quarantenni?
In realtà qurantacinquenni/cinquantenni, è uno spettacolo sulla crisi dell’uomo di mezza età ed è estremamente autobiografico, il protagonista si chiama Walter come me, ma poi si va anche oltre il dato puramente biografico. Su questo aspetto Carlo Gabardini, con cui ho scritto lo spettacolo, ha insistito molto. Diciamo che si parla del culmine della crisi, non per nulla il mio personaggio a un certo punto afferma «sono in crisi da poco, da 44 anni».
È una crisi diffusa quella di cui parli, che tocca vari livelli e dimensioni.
Sì, si comincia parlando della crisi economica, sociale che c’è, poi in realtà si capisce subito che questo è un uomo che si chiude in casa e vive in casa per un tempo indefinito, ma lungo e che si fa tutto un viaggio mentale per poter uscire da questo suo malessere, che è anche dovuto alla solitudine. Quindi, attraversa la crisi del credo, dell’avere una sua fede. È questa la prima crisi che va a indagare, lui non ha mai avuto una fede, o meglio oggi non ce l’ha più, ma durante l’infanzia e l’adolescenza ce l’ha avuta. Il tutto è sempre rapportato a me, che sono profondamente ateo. E proprio per questo penso sia molto difficile riuscire a superare i periodi altalenanti di depressioni forti se non hai una fede nella quale poter scaricare parte della tua responsabilità nella crisi stessa che stai vivendo.
Nello spettacolo tocchi tutta una serie di altre religioni oltre a quella cristiana.
Nel monologo iniziale c’è una vera e propria indagine fatta da stand-up, da comico, per mettere in rilievo tutte le assurdità e le contraddizioni che si possono incontrare nelle varie religioni. Si parte dalle religioni canoniche monoteiste, poi ci si sposta sulle pseudo-religioni esoteriche, new age e si finisce su una delle principali ritualità del nostro tempo, molto forte nel nostro Paese, ma direi nel mondo intero, ovvero il calcio.
Non a caso si parla di fede calcistica…
Mi piace molto il calcio come sport, ma odio fortemente la passione totale per questo sport e tutto quello che ci sta intorno, le trasmissioni, le discussioni, le parole che si fanno… Sembra proprio una ritualità per riuscire a seguire qualcosa che ti stacchi dal quotidiano. Come può succedere che se la tua squadra vince sei felice? Mi viene da chiedere: perché? In che modo? E mi sembra solo ed esclusivamente perché si mette in atto una trasposizione idolatrante, non saprei come altro definirla. Per cui questo atteggiamento lo abbiamo esasperato e viene fuori un monologo molto comico.
La psicanalisi diventa un altro credo a cui affidarsi per risolvere tutti i problemi.
Penso sia la vera principale religione dell’uomo contemporaneo occidentale. Anche se credi in Dio vai in analisi, a farti curare e quello che era una volta il prevosto da cui si andava a parlare dei propri problemi, è stato sostituito da un dottore a cui affidi la tua anima.
C’è un momento in cui diventi addirittura uno sciamano e fai un rito con un I-pad.
Sì, è un vero e proprio sacrificio, anche questa è un’altra indagine. Oggi ci sono tantissimi rituali a cui ci si sottopone – dal camminare sui carboni ardenti al fare bungee jumping o buttarsi con il paracadute – tutte queste cose estreme, forti, mi colpiscono. In un certo senso anche il culto del fisico e della salute portato alle estreme conseguenze, tanto da diventare una patologia, mi ricorda il sacrificio, e penso proprio all’etimologia della parola che fa riferimento alla separazione, al luogo altro, dove è tutto permesso perché lo stai facendo per gli dei. Allora siccome il nostro dio sostanzialmente siamo noi stessi, è assolutamente concepibile il fatto di non mangiare per arrivare a una forma estetica, perché lo faccio per me, per il mio dio.
C’è anche l’invettiva contro un certo tipo di politica.
È quello che definirei il populismo esagerato, terribilmente dilagante, da sempre, nel nostro Paese e non solo. Noi dal fascismo in avanti siamo fortemente populisti. Nello spettacolo lo rendiamo con una proiezione sul vecchio, che poi, fondamentalmente, è sempre il mio personaggio da vecchio. Non utilizzo trucchi, indosso semplicemente una giacca, perché ci interessava mantenere un’ambiguità sul fatto che potrebbe essere una proiezione mia nel futuro, una visione, tant’è che uscendo dal bar mi chiedo: «Chissà se sarò davvero così».
E non poteva mancare la rivolta contro i padri.
Sì, è la crisi di cui io e Carlo abbiamo parlato per ore e ore per riuscire a codificarla, questa grossa rabbia che c’è, sia da parte mia che da parte sua, nei confronti della generazione precedente. È il momento che noi chiamiamo «l’urlo al padre». È stato un lunghissimo ragionamento per riuscire a tirare fuori le reali responsabilità di quella generazione che sicuramente le ha, però, è anche vero, come dice il monologo stesso, che se «io sono il dio di me stesso e il padre di me stesso» perché me la prendo con il padre? Se non credo a niente, allora è mia la responsabilità unica di tutta questa guerra generazionale, perché dovevo alzarmi io in piedi e allontanare, uccidere o quantomeno scansare il padre e sostituirmi a lui. Questo è un po’ il centro di tutto lo spettacolo, almeno secondo Carlo, anche perché era il periodo in cui iniziava a scrivere il suo libro sul padre che si intitola Fossi in te io insisterei, nel quale ci sono piccoli accenni a questo monologo.
Per te qual è il centro?
Per me è il cuscino finale, io sono partito da lì. È un po’ il grembo materno. Dopo che anche la soluzione amorosa fallisce, non riesco ad affrontare l’amore perché sono in crisi, mi abbandono consapevolmente alla mia crisi. Crisi in greco vuol dire “scelta” quindi decido di trasformare la mia crisi in una depressione cosmica. Vivo sul mio divano, da cui non mi muovo e da dove faccio tutto, consapevole che, quando sei davvero in equilibrio con te stesso, basta anche un cuscino per rinascere. C’è l’idea della rigenerazione, non per nulla dico: «Mi faccio divorare dagli acari per farmi una pelle nuova».
Alla fine, nonostante tutto, Amen si chiude su una nota di speranza.
Secondo me è lo spettacolo con l’happy end più forte che ho fatto fino a ora. Tutti gli altri sono delle devastazioni, qui si va verso la luce.
Milano Teatro Elfo Puccini 14-15 luglio h.20.30