Un pomeriggio di molti anni fa, quando il Torino Film Festival si chiamava ancora Cinema Giovani, in una sala stipata di cinefili e studiosi, Gianni Rondolino si presentò fuori programma facendo entrare a sua volta un gruppo di studenti di liceo, perché potessero esprimere la loro protesta. Niente di speciale, certo, eppure in quel gesto c’era l’essenza di un insegnante da cui tutti gli studenti torinesi della mia generazione hanno imparato molto. E non si tratta solo di aver studiato sui suoi libri, di aver seguito le sue lezioni universitarie, di aver ascoltato i suoi discorsi in diverse occasioni. Si tratta di aver avuto il privilegio di conoscere in lui quella passione allegra, curiosa e aperta che ho più volte ricordato a me stessa. Probabilmente senza di lui le cose in città, ma anche altrove, sarebbero andate in modo diverso. Il Torino Film Festival forse non ci sarebbe e con esso tutta la tradizione di una cinefilia capace e disponibile a confrontarsi. Perché Rondolino sapeva ascoltare le idee degli altri, anche quelle lontane dal suo pensiero, e le analizzava e ne capiva il valore, senza, però, mai scomporsi, senza attribuire loro etichette di moda.
Non amava Clint Eastwood, ma mi chiedeva di parlargli di questo o quel film, che io avevo invece inserito tra i miei preferiti dell’anno. Non ho mai smosso le sue diffidenze, né ho mai scalfito le sue idee, ma il suo interesse non era diverso e non faceva che stimolare i termini di una conversazione per me sempre utile e ricca di suggestioni. Lo ricordo sorridente, anche quando, appunto, permise a quegli studenti di illustrare a noi, spettatori ansioni di vedere un film, i pericoli dell’ennesima riforma scolastica, che rendeva la scuola un po’ più povera e un po’ più elitaria. Stava in piedi accanto al tavolo, con le braccia conserte, una mano a sorreggere il mento. Ascoltava le parole di quei ragazzi coraggiosi e annuiva e li ringraziava di aver sconvolto la scaletta di un programma di festival e di aver fatto entrare in sala una verità non mediata e urgente. Amava viaggiare, per festival, città e luoghi lontani. E iniziò a mancarci quando abbiamo smesso di vederlo in coda alle proiezioni di Cannes e Venezia. Amava i progetti avventurosi e folli, ma non si scomponeva e non perdeva mai quella scettica eleganza. Amava i giovani registi e i giovani critici, che sosteneva e indirizzava senza invadenza. Seguiva i loro passi come un padre orgoglioso e critico, eppure presente. L’ultimo padre della nostra generazione senza padri, che mi ha insegnato soprattutto la libertà e la disponibilità del pensiero.