Il regista newyorkese ha scelto Piazza Vittorio, quartiere nel quale risiede da qualche tempo, come oggetto del suo nuovo documentario, presentato Fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Come già in Napoli Napoli Napoli Abel Ferrara si mette in gioco in prima persona e intervista immigrati, artisti, abitanti di un quartiere «che ancora ha un’anima». Ecco le sue dichiarazioni nel corso della conferenza stampa.
Scrivere un diario
Per me fare un documentario è come scrivere un diario, parlo della mia vita, di quello che faccio, di quello che vedo. Non trovo ci siano differenze tra il documentario e la finzione, così come non penso ci sia una linea di separazione tra l’attore e l’essere umano, quindi in entrambi i casi il mio approccio è lo stesso.
Pier Paolo Pasolini
Penso che il nostro rapporto con Pasolini è sia conscio sia inconscio: mi riferisco alla sua influenza anche nell’inconscio perché ci sono persone che sono nate dopo che lui era già morto e che vivono sotto la sua influenza. Roma è la sua città, quella dove lui era immigrato, il suo volto è sempre lì, ci attrae lì.
Questione di tradizione
Abbiamo girato il film in 5-6 giorni, ma io ne ho tratto un racconto che va dalla mattina fino al pomeriggio, è un flusso. Tra l’altro in questo Paese la mattina è una tradizione, così come lo è l’ora del pranzo. La mia parola preferita in italiano è “dopopranzo”, anche quello è un momento specifico, nel pomeriggio i negozi riaprono, io vengo da New York dove si vive tutto il giorno e anche tutta la notte, 24 ore su 24, in America non hanno una cultura culinaria, quindi non sanno neanche quando mangiare e questo ha un’influenza sulla vita delle persone. È per questo che sono venuto in Italia. Abbiamo un proverbio in inglese che dice «When in Rome, do as Romans do» (“Se vieni a Roma, agisci come i romani”).
Un piccolo mondo
Di Piazza Vittorio mi colpiscono tutti gli aspetti, la cosa fantastica è proprio la varietà, le sfaccettature quasi di un diamante di questo quartiere. Però penso anche che non si viva in un Paese: Bologna è lontana da Roma, tanto quanto Palermo, la stessa cosa vale per l’America. Quando si parla dell’Alaska o della Florida le cose cambiano… I posti non sono tutti uguali. Io non vivo a Roma, vivo a Piazza Vittorio, so dove vivo, i confini della mia vita sono la stazione Termini, il Colosseo, San Giovanni, a tratti Santa Maria Maggiore, non oltre via Nazionale, questo è il mio mondo, questa è la mia Roma, poi ci sono altri 50 quartieri bellissimi in città. Quando sono in Italia è questo il mio piccolo mondo, mi piace la musica, la gente, i ristoranti (non così tanti perché vado solo in uno o due), i bar (quattro forse)…
L’immigrazione
Quando si parla del “problema degli immigrati” si sta già classificando una situazione, scordando che è la tradizione in questa città. Gli africani sono stati a Roma da sempre, perché improvvisamente è diventato un problema? Interagiamo, le persone si spostano… Mio nonno era un immigrato, aveva 19 anni, era senza documenti, ha rubato il posto in barca, nell’America di Trump lo avrebbero fatto annegare, sarebbe stato sicuramente incarcerato o rimesso su una barca e rispedito a casa. C’è un’espressione usata dagli Americani per definire gli italiani ed è“Wop”. Ho capito solo dopo che indicava “Without Papers”, ovvero chi era senza documenti. Mio nonno aveva un lavoro che lo aspettava, non gli importava di avere i documenti. Quello che accade oggi non è solo una questione di immigrati, questi rifugiati scappano da guerre in Siria, in Africa o in Messico (dove c’è una guerra per la droga). Scappare da una guerra in corso non è la stessa cosa di quello che fece mio nonno che si spostò in un altro posto per tantissime ragioni, sapendo che c’era qualcosa che lo aspettava.
Questione di punti di vista
L’Italia è un Paese di eploratori da Cristoforo Colombo in poi, vivendo circondati dal mare l’esplorazione è nella tradizione, l’immigrazione è un equilibrio, non si può dire se sia giusta o sbagliata. Ma la situazione è come la si fa, quindi l’immigrazione è positiva se la si vuole vedere positivamente, se la si vuol definire un problema lo si può fare, e quando si parla di “problema dell’immigrazione”, si mettono insieme due parole, se si vuole che sia un problema lo diventa.
Perché l’Italia?
Ho lavorato in Italia per circa 15 anni, vivo qui per ragioni pratiche, ho una donna di cui mi sono innamorato, abbiamo una figlia, lei vive a Roma, compare nel film. Il tipo di film che faccio è molto personale e ogni volta cerchiamo di reiventare il modo in cui farlo, non c’è rete di sicurezza, non è un prodotto, ma anche con un budget limitato abbiamo fatto un lavoro coraggioso. Questo tipo di mentalità non esiste in America, è difficile anche in Europa, sia chiaro, ma ci sono più possibilità e per il tipo di tema che affrontiamo non si può lavorare se non si ha paura di fallire. È impossibile creare un prodotto che abbia zero possibilità di fallimento. E poi in Italia il caffé è mille volte meglio.