È stato presentato a Venezia, e per ora non si vede in giro. Ma dovrebbe. Perché in un contesto, non solo italiano, in cui produttori ed editori sembrano schiacciati dal peso del gigantismo ma mancano spesso di coraggio, guardare alla storia di un produttore cinematografico vecchio stile, come quello raccontato in Alfredo Bini, ospite inatteso, potrebbe insegnarci parecchie cose.Quando l’ho visto, al Festival, ero reduce dalla conferenza stampa di Brian De Palma, il quale, raccontando quanto rimpianga il periodo in cui, insieme a Scorsese, Coppola, Spielberg e Lucas si trovava quasi ogni sera a Hollywood, negli anni Settanta, per parlare di cinema, inventare, trovare soluzioni registiche, ha amaramente aggiunto: “È stato un momento in cui avevamo rinnovato la città del cinema, prima che tornassero gli affaristi…”. Una frase che mi ha accompagnato quasi per contrappunto, perché Bini è stato un grande produttore italiano, uno dei migliori e forse più sottovalutati, che ha finito la sua vita senza soldi e (quasi) dimenticato, mentre altri, meno illuminati, si impadronivano del cinema italiano frenandone la crescita.
Alfredo è morto nel 2010. Quando accadde, viveva da anni in un motel sulla via Aurelia, nei pressi di Montalto di Castro, in poche stanze messe a disposizione da un albergatore che col tempo gli era divenuto amico. Lì lo ha conosciuto il giovane filmaker Simone Isola, che ne ha ascoltato le storie, apprezzato la lingua arguta e velenosa da livornese, accettato le paturnie. E poi ci ha fatto un film, appunto Alfredo Bini, ospite inatteso, che nel titolo ammicca alla versione italiana di un bel film del 2007 diretto da Tom McCarthy. Anche a me è capitato di fare visita a Bini, in due occasioni: ci eravamo conosciuti a Novara, in un convegno in cui dovevo parlare del cinema di Pasolini, mentre lui era ospite insieme all’attrice di un solo film, Margherita Caruso, per Il Vangelo secondo Matteo, che aveva prodotto. Qualche mese più tardi mi prestò una copia in 35 mm di Sopralluoghi in Palestina, girato da PPP nel 1963, quando il regista, con l’avallo e il sostegno di Bini stesso, cercava in Israele location adatte per quello che sarebbe divenuto (nel 1964) il suo film su Gesù. Frequentandolo ho scoperto una miniera di cose sul cinema, quelle che lui riferiva con distacco toscano, quasi fossero capitate ad altri o comunque per caso. Chi era Alfredo Bini? Un uomo mosso dall’idea che il cinema d’autore debba arrivare al pubblico in ogni modo possibile, senza aspettare che questo lo venga a cercare; uno che credeva nel potere delle idee; uno che ha permesso la realizzazione di oltre cinquanta film, di PPP, Bolognini (il suo preferito, mi confessò una volta, anche se apprezzava tutti gli autori con i quali ha lavorato), Damiani Lattuada, Comencini, Salce, ma pure Chabrol e Bresson; uno che col cinema non ha forse guadagnato molto (e comunque, quel poco lo ha speso), ma a cui ha dato parecchio. Emblematici, in tal senso, i magnifici titoli di testa di Uccellacci e uccellini, musicati da Morricone, in cui i rischi di reputazione di Pasolini vanno esplicitamente a braccetto con quelli di posizione (economica e sociale) di Bini. In gioventù era stato fascista, poi sostanzialmente anarchico, sempre controcorrente. Amò molte donne e non furono quasi mai amori fortunati, da Belinda Lee a Lea Massari, a Rosanna Schiaffino, che sposò. Nelle stanze del motel era circondato da ricordi, cimeli, pizze, fotografie. Il ritratto vitale di un cinema che non c’è più. E che ci manca.