Claudio Bernardi: Gigi Proietti, lo Shakespeare del quotidiano

Io sono Babbo Natale

«È stato curioso, così curioso da inseguire forse troppe ipotesi». Questa l’epigrafe che Gigi Proietti aveva scelto per sé in un’intervista di qualche anno fa. Ipotesi che si sono tutte concretizzate e in ognuna delle quali eccelleva: è stato attore, regista, cantante, musicista, doppiatore (sua la voce del primo Rocky che chiama Adriana, ma anche quella di Donald Sutherland in Il Casanova di Federico Fellini, di Robert De Niro in Casino di Scorsese, oltre che di Gatto Silvestro e del genio della lampada in Aladdin) e autore di una bella autobiografia (Tutto sommato qualcosa mi ricordo, Rizzoli, 2003). Aveva una preparazione e una tecnica eccezionali, ma cominciò a fare l’attore per caso, accantonando la carriera da musicista e cantante di night, chiamato a sostituire Domenico Modugno nel musical Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini, al fianco di Renato Rascel. Da allora non si è più fermato (lo scorso gennaio era sul set di Io sono Babbo Natale di Edoardo Falcone, che dovrebbe uscire a dicembre). Abbiamo cercato di sviscerare la grandezza di Gigi Proietti, scomparso lo scorso 2 novembre nel giorno del suo ottantesimo compleanno, con l’aiuto di Claudio Bernardi, professore ordinario di Storia del teatro e Antropologia del teatro presso l’Università Cattolica di Brescia.

 

Gigi Proietti è un monumento nazionale, non a caso la sua immagine è stata proiettata sul Colosseo e sul Campidoglio. Non è soltanto simbolo di Roma, ma di tutta l’Italia. Come ha fatto?

Rispetto a tutti gli altri comici che sono delle macchiette – penso a Totò, Dario Fo, Alberto Sordi -, Gigi Proietti conserva nella comicità un lato umano, normale che gli altri non hanno. È sicuramente un comico popolare, però è anche molto colto, e non ha mai un’idea della risata becera, ridanciana. Non mi piace associare alla sua comicità l’aggettivo “tragica” o “drammatica”, preferisco definirla “umana” nel senso del quotidiano, dei sentimenti. Proprio per questo mi piace definire Gigi Proietti un “comico romantico” perché è come se a lui piacesse molto un’idea di vita normale delle persone che si scontrano con la realtà. Tutti hanno alti ideali, poi, invece, le circostanze di ordine quotidiano sono abbastanza basse, quindi c’è un abbassamento molto forte, ed è quello che fa scaturire la risata, ma in cui mantiene il “sarebbe bello se…”. Diciamo che è il contrasto tra l’ideale del romantico e la vita quotidiana. 

 

 

In questo modo scatta l’identificazione, le persone si riconoscono in lui…

A livello generale tutti ritrovano questo contrasto tra l’ideale, le cose che funzionano come vorrebbero e l’incidente, la banalità… Sono sempre situazioni affettive tra marito e moglie, padre e figlio, il maresciallo… C’è sempre una profonda umanità come se non ci fosse la cattiveria, non vedo mai aggressività da parte sua. Per intenderci: Carlo Verdone, per esempio, va sempre a cercare delle macchiette, Proietti no, i suoi personaggi sono sempre persone normali e questo fa sì che siano molto più riconoscibili. In Proietti non vedo mai l’immedesimazione in un personaggio alla Grotowski, lui fa a meno del personaggio o se lo utilizza mantiene sempre un distacco quasi brechtiano da quello che interpreta. È come se fosse contemporaneamente dentro alla parte e fuori, è dentro, ma poi ha questo guizzo, questo sguardo sovracomico… È il poeta comico del quotidiano.

 

Nei suoi spettacoli il pubblico ha un ruolo fondamentale, Proietti interagisce con gli spettatori.

In A me gli occhi, please!, suo cavallo di battaglia, ha un rapporto con il pubblico molto basato sulla simpatia che, secondo me, deriva dal fatto non che abbia un velo di tristezza (per questo prediligo la parola “romantico” a cui aggiungerei “romano” nel senso che c’è il cinismo, la fragilità di Roma), ma dalla simpatia verso i suoi personaggi e verso il pubblico, una simpatia verso il lato debole di tutti quanti e della vita in generale. Getta una luce su episodi quotidiani in maniera shakespeariana, ma da un punto di vista comico, è il comico del lato debole: Shakespeare va sul lato drammatico delle vicende, il dramma è sempre composto da circostanze eccezionali, mentre nella vita quotidiana il dramma c’è ma è molto quotidiano, sono le piccole cose… Proietti è lo Shakespeare del quotidiano, un quotidiano fatto di debolezze. Da questo punto di vista  le sue barzellette sono un’enciclopedia, penso a quella degli stitici a Montecatini. Prende situazioni in cui tutti si ritrovano, che non sono forzate, c’è il racconto di drammi, quotidiani, ma piccoli, il non riuscire ad andare in bagno, la moglie sorda, il pugile… Non stiamo parlando di eroi, ma nemmeno di figure comiche tirate, siamo tutti noi, è una grande pittura dell’umanità quotidiana.

 

 

L’alto e il basso in lui convivono in maniera incredibile…

Possiede una grande cultura che vuole trasmettere al popolo, ma sa che il popolo vuole divertirsi, non è pronto ad affrontare cose grandi, quindi Proietti affronta cose piccole, ma ogni volta le sue risate, le sue battute rimandano ad altro. Tu ridi, ma capisci che c’è dell’altro, un livello un po’ più alto, una meditazione più profonda sull’umanità. 

 

Febbre da cavallo

 

Perché nonostante abbia lavorato con grandi registi (da Scola a Garrone passando per Petri, Steno, Monicelli, Corbucci, Brass, Citti, Tavernier, Altman…), e abbia creato personaggi iconici (su tutti Mandrake in Febbre da cavallo), non ha mai veramente sfondato al cinema? 

Prima di tutto al cinema manca il contatto con il pubblico che significa proprio anche il contatto con questa dimensione quotidiana e non esasperata (ma il discorso vale anche per le opere drammatiche che ha fatto a teatro). Il cinema ti oggettivizza, non ti mette “in relazione con”, il pubblico di sala è individuale, non posso dialogare con lui. Invece Roberto Lerici, che purtroppo è morto presto, gli ha costruito addosso A me gli occhi, please! che ha avuto un successo straordinario e insieme hanno inventato un genere nuovo. A teatro Proietti sente la risata, sente la risposta, può sbizzarrirsi e mostrare tutto quello che sa fare per illustrare il mondo variegato, non è uno spettacolo di varietà, però, è anche spettacolo di varietà. Guarda caso il pezzo di Un’estate al mare di Carlo Vanzina in cui interpreta il conte Duval – che poi ha ripreso ed è diventato un suo cavallo di battaglia – al cinema è un piccolo gioiello perché i tempi sono perfetti, e ancora una volta lo fa in presenza di pubblico, è  teatro classico all’italiana dove c’è il rapporto tra l’attore e il pubblico. Proietti ha assolutamente sfondato la quarta parete, e questa è una delle caratteristiche del comico, usando la pluralità dei linguaggi, ma soprattutto la reazione e il dialogo con il pubblico. Crea un ambiente di ordine fa miliare, umano, conviviale a partire dal saluto “Buonasera” a cui il pubblico risponde. Proietti è umile, non vuole la venerazione, l’applauso, è molto soddisfatto quando vede che l’ambiente intorno si rilassa, ride, crea una sorta di terapia collettiva. E questo è successo anche con l’altro straordinario successo di Il maresciallo Rocca.

 

 

Un vero e proprio rito collettivo.

Sì, mi piace pensare a un gioco collettivo. Sempre in A me gli occhi, please! c’è un momento in stile concerto in cui dice parole senza senso che il pubblico ripete, facendo diventare il pubblico un coro, un coprotagonista della sua performance. Anche in tv lo fa. Quando si parla di “comico popolare” andrebbe inteso non nel senso che fa ridere il popolo, ma che coinvolge il popolo, lo fa diventare coro, lo alza, in un gioco, quello teatrale, un viaggio, un’esperienza di ordine collettivo, in cui ti diverti, ti commuovi, piangi… Sogna la Roma bella, grande, eterna, romantica, le canzoni d’amore… Sta sempre in un equilibrio sulle cose serie. Il comico di ordine macchiettistico, satirico non gli appartiene, per lui è come se fossero due parti del cervello – quella dell’emozione e quella della critica e dell’intelligenza – e sa che sono inscindibili. Non mi viene in mente nessun altro che possieda questo tipo di completezza ludica. Era ed è unico.