Claudio Lolli era un cantastorie. Esprimeva una rabbia che perforava le nebbie crepuscolari (e sociali) degli anni Settanta, non rimaneva mai a fior di pelle ma scavava facendo sempre i conti con i suoi temi preferiti: la religione, la famiglia, la giovinezza, il pacifismo, la lotta di classe… Le sue parole intrise di consapevolezza e di pietà, ci guidavano con uno sguardo sul mondo vigoroso e pieno di dignità. Lolli ha attraversato i tempi vivendo Dylan, la canzone d’autore, il rock and roll, il boom economico, l’autunno caldo senza farsi raccontare le cose dagli altri: qui sta probabilmente il segreto della sua poetica. Era dentro e fuori dal ruolo:”A me non interessa essere più avanti o più indietro di qualcuno e non investo in questo in questo tutta la mia capacità di vita che è già poca, anche se è vero che mi piace fare canzoni e mi piace farlo a modo mio. Anche se sono tendenzialmente autocritico e autodistruttivo, ci sono momenti in cui riascolto qualcosa e mi piace, sono contento di averla fatta. Il fare canzoni è sempre stata una cosa assolutamente spontanea, forse di stampo umanistico, la classica cosa che viene dall’anima, che subisce gli umori del momento e delle cose che succedono. Di ciò che ho fatto, a volte, mi secca molto una vena ingenua e un po’ patetica che non mi permette di arrivare all’ironico”. Lolli cercava di ritrovare nella propria inquietudine una saggezza al di fuori dei tempi, un poeta oltraggiato che padroneggiava il materiale e ne strappava brandelli di verità (si pensi solo al suo clamoroso esordio Aspettando Godot, 1972, che sposa la malinconia con ballate vertiginose come Borghesia). Se il bilancio generazionale e le chitarre acustiche di Canzoni di rabbia (1975) non si possono dimenticare, la bollente forza ed equilibrio di Ho visto anche degli zingari felici (1976) che rappresenta un’ammirevole ricerca di una via, di una risposta convincente e diviene manifesto e scandalosa confessione (c’è tutto terrorismo, povertà, guerra, ribellione, contestazione…). Lolli non ha mai mollato, non è sceso a compromessi con la sua sensibilità politica, la disponibilità ideologica e il senso di intervento in prima persona non si sono smarriti, la funzione stimolatrice e accusatrice dell’artista non ha perso mordente nonostante abbia avuto a che fare con una società in gran parte impermeabile ad ogni richiamo, basta ascoltare Il grande freddo (2017), il suo lavoro di commiato, vincitore della Targa Tenco come album. Per osservare l’ideale è rimanere appartati e lui lo sapeva:”Io faccio queste cose esclusivamente quando ne ho voglia o quando mi capita qualcosa di bello e riempio questi periodi immensi tra un lavoro e l’altro facendo altro. Non lo dico per giocare al precario non garantito, ma questo lavoro non mi garantisce la vita e forse mi piace solo finché è così”- confessava agli inizi degli anni Ottanta e aggiungeva:”Non voglio negarlo né nasconderlo. Il discorso di essere un garantito non lo intendo solamente in senso economico, ma come problema di identità. Mi piace investire il mio tempo nella musica, nel cantare, ma nel contempo rifiuto di identificarmi completamente con questa cosa. Io non sono tutto lì”. Integro e non integrato, Lolli ci ha accompagnato fra spirito di solidarietà e fascino sottile e ambiguo della sconfitta con una voce talmente realista da sembrare irreale, magica e colma di misteriosa, nutriente verità.