Daniele Gaglianone: Il tempo rimasto è una riflessione sul senso della finitudine senza mai parlarne

Un lavoro prezioso, bellissimo, che documenta – come dice il titolo – il tempo che resta non tanto nel senso di quello che rimane da vivere ma nel senso di lascito, di patrimonio culturale e identitario. Protagonisti del film sono 34 ultraottantenni che ci accompagnano in un sorprendente viaggio nel tempo e nello spazio regalandoci i loro ricordi e facendoci così conoscere, anche solo per pochi istanti o attraverso uno sguardo, un pezzetto della loro vita e della nostra Storia. Tanti i temi trattati: dal corteggiamento alla maternità, dai giochi alla scuola, passando per il senso di vergogna, la fame, l’emigrazione, il fascismo… Tutto raccontato con grande partecipazione e senza filtri. Diretto da Daniele Gaglianone, che lo ha scritto insieme a Stefano Collizzolli, mentre Andrea Segre lo ha prodotto, Il tempo rimasto è «un film sull’infanzia e la giovinezza». Così ci ha rivelato Daniele Gaglianone che abbiamo incontrato.

 

Ci racconti la genesi del film?

Il tempo rimasto è parte di un progetto più ampio nato da un’idea di Andrea Segre. Tutto parte dalla constatazione che quando la generazione delle persone con più di 85 anni morirà, con loro se ne andrà anche chi può ricordare in prima persona com’era il mondo prima delle grandi trasformazioni perché, bene o male, fino alla Seconda Guerra Mondiale e al boom economico, almeno per noi europei, il mondo è sempre stato – seppure con dei cambiamenti – simile: l’esperienza di un nonno del 1920 non era tanto diversa da quella di un nonno del 1950. Dopo gli anni 50, invece, c’è stato uno shock antropologico. Con l’Istituto Luce abbiamo cercato di portare avanti questo progetto di raccolta di testimonianze, come una sorta di archivio. Ci siamo concentrati soprattutto su cinque regioni (Veneto, Piemonte, Lazio, Sicilia e Calabria) senza disdegnare le occasioni che si presentavano in altre parti d’Italia, per fare un lavoro di raccolta che abbiamo sempre pensato dovesse essere accompagnato da un documentario che fosse opposto e complementare: fin dall’inizio volevamo avesse una valenza più rarefatta, sospesa, quasi fosse un’indagine su uno stato d’animo che è quello di chi sa o sente, più o meno consapevolmente, che finito lui finirà un mondo che non potrà più essere trasmesso personalmente.

 

Gli anziani protagonisti sono già di per sé una scelta in controtendenza.

Abbiamo iniziato a lavorare a questo documentario nell’ideazione, nella preparazione e nella scrittura fra il 2019 e il 2020. Sappiamo in che brutta storia siamo immersi dal 2020, quindi diciamo che lavorare sulla vecchiaia è diventato anomalo. Da una parte più complicato, più difficile, più arduo, soprattutto per questioni logistiche legate alla pandemia, ma dall’altro ancora più suggestivo. Anche se poi nel documentario non si parla, e credo sia giusto, di virus. 

 

Come siete passati dalle testimonianze d’archivio al documentario?

Facendo questo viaggio abbiamo incontrato persone che ci hanno colpito più di altre e quindi con loro siamo tornati una seconda e anche una terza volta a fare delle riprese che fossero incontri più intimi. L’importante era creare l’atmosfera giusta affinché le persone potessero sentirsi libere di parlare anche in modo apparentemente sconclusionato… Sono state vere e proprie epifanie, non cercate, nel senso che non abbiamo mai spinto per farci dire le cose.

 

 

Come hai accostato le varie testimonianze?

È stato bello giocare e far dialogare i vari frammenti anche decontestualizzandoli e facendo intuire tutta una storia di cui non si parla. È come se, a un certo punto, si aprissero delle finestre o ci si affacciasse su qualcosa che è già in essere e si cogliesse una frase, un brandello e poi si chiudesse la porta e si andasse da un’altra parte, ma intorno a quel frammento c’è un alone di tutto il resto che arriva. Ci siamo “divertiti”, nel senso etimologico di divertere, “andare altrove”, ogni volta era un salto verso un altrove. Volevo che il lavoro si muovesse su un filo tenue, molto fragile, che fosse un’indagine su uno stato d’animo, ma fosse anche privo di una struttura apparentemente solida. Sotto traccia ce l’ha eccome, però è un flusso di frammenti in cui le persone si prendono degli spazi dove, di volta in volta, emergono, non c’è una regola per cui, per esempio, un testimone appare una sola volta. Ho deciso di far parlare il più possibile la razionalità emotiva e quindi procedendo per associazione, per assonanza o dissonanza. L’idea era quella di costruire il documentario come se fosse un po’ irreale ma poggiasse su ricordi e frammenti di racconti di una realtà estremamente concreta, materica dove le storie – soprattutto dell’infanzia e della giovinezza – sono legate a cose molto fisiche. Mi piaceva arrivare a una riflessione sul senso della finitudine senza mai parlarne. E anzi questo stupore di essere sopravvissuti, di affacciarsi all’ultima parte della vita, doveva emergere attraverso la rievocazione di un tempo passato, del tempo rimasto che non è solo quello che manca da vivere, ma è soprattutto il tempo che si è consolidato o vorremmo si fosse consolidato ed è per questo che viene raccontato. I nostri testimoni lo raccontano attraverso le parole o con uno scintillio nello sguardo e c’è sempre questo dubbio esplicitato solo alla fine dalla signora che si chiede se qualcosa resterà. Credo che il documentario abbia anche una dimensione onirica, sembra quasi un sogno in cui si salta da uno spazio e da un tempo senza una logica riconoscibile, stringente. Volevo restituire questo senso di sospensione…

 

L’aspetto materico di cui parli ritorna nelle fotografie conservate nelle scatole che riaprono ricordi…

È una cosa su cui abbiamo riflettuto molto… Ci siamo chiesti se utilizzare materiali di repertorio e non ho avuto dubbi in merito: il materiale di repertorio avrebbe schiacciato tutti i racconti, rischiando di sistemarli storicamente da qualche parte mentre in realtà le fotografie – e la relazione che c’è fra le persone e le fotografie, questi oggetti fisici che sono di un altro tempo, che non appartengono più al presente perché ormai le foto non esistono più -, hanno in sé, nella loro fisicità, anche il segno del tempo che passa perché si ingialliscono, si scoloriscono, invecchiano, la carta si deteriora… E c’è il confronto immediato tra il qui e ora di chi tiene in mano la foto e il qui e ora della foto, quindi il rapporto con il tempo e la storia attraverso questi oggetti familiari ma nello stesso tempo remoti rafforza l’idea di essere in una situazione di rarefazione. Ci sono momenti in cui le foto sono delle epifanie, non tanto l’oggetto in sé, ma quello che scaturisce dal riguardarlo, dal mostrarlo e volevo che del passato ci fosse solo questo, un passato che è dentro il presente di chi sta parlando perché in quel momento apri la scatola e quell’oggetto è lì nel momento in cui stiamo filmando. È sempre un’immagine del tempo rimasto che è dentro il nostro tempo, dentro il qui e ora del testimone e del momento della ripresa.

 

Le persone appartengono a classi sociali molto diverse tra loro… 

Abbiamo cercato di attraversare gli spazi sociali e geografici nel modo più ampio possibile, anche se non siamo stati esaustivi al 100%. Non volevamo fare accostamenti immediati e naturali tra il ricco e il povero. Era un materiale difficile da maneggiare non volendo fare “il solito documentario” sulla storia del 900 vista dal basso, attraverso le storie con la s minuscola che poi si confrontano con la Storia con la s maiuscola. Non appena sentivamo aria di documentario sul 900 cambiavamo strada. E poi ci tenevamo molto – e in montaggio è stato l’aspetto più arduo – a bilanciare il peso specifico di ogni testimonianza e di ogni presenza nel senso che non doveva mai diventare il documentario su una persona in particolare. Ci sono tante persone ma non è che chi compare tre volte e magari ha un minutaggio più consistente è più importante di chi compare solo 20 secondi. Alla fine del film vorrei che allo spettatore restasse questo senso di coralità, di aver incontrato anche solo per un frammento brevissimo un sacco di persone.

 

 

Il tempo rimasto documenta il passato ma è anche una riflessione sull’attualità, su quello che siamo diventati.

Sì certo. Noi scherzando, ma neanche tanto, ci siamo detti che è un film di fantascienza nel senso che è un film su un tempo remoto ma che potrebbe anche essere araldico. Un tempo che preannuncia un futuro possibile: ci sono situazioni che vengono raccontate – soprattutto quelle più estreme rispetto alla povertà, all’impossibilità di continuare a studiare o di morire letteralmente di fame o vedere morire di fame i propri fratelli – che sembrano e per fortuna sono lontanissime, ma stiamo vivendo un periodo così lacerante di crisi economica, sociale, filosofica, culturale e antropologica che questi racconti che vengono da lontano si ascoltano anche con una certa inquietudine perché non si riesce a dare per scontato che quelle condizioni ce le siamo messi alle spalle, come magari sarebbe stato 30-40 anni fa. Adesso sappiamo, o quanto meno sentiamo, che la nostra situazione così apparentemente solida in realtà è molto più precaria di quanto ci vogliamo rendere conto e quindi ascoltare persone che vivono ancora oggi e ti raccontano cose che sembrano medievali fa impressione.

 

Queste storie riescono a parlare a tutti, anche ai ragazzi (penso soprattutto a quando si parla dell’importanza dello studio che a molti è stata negato).

Questo è un film sulla vecchiaia ma è anche un film su dei bambini, su dei giovani. Non a caso si chiude con l’entrata definitiva nell’età della maturità, le persone vanno a lavorare da adulti (naturalmente molti di loro hanno lavorato anche da bambini), ma ci si affaccia agli anni del boom economico e poi si resta lì. I ragazzi che hanno visto Il tempo rimasto sono rimasti molto colpiti perché nonostante la distanza quelle storie risuonano dentro di loro. Per le nuove generazioni la precarietà e l’inquietudine di cui dicevamo è qualcosa con cui fanno i conti da quando sono nati, è la loro condizione naturale. Siamo noi che apparteniamo alla generazione che ha vissuto gli scampoli dell’illusione della stabilità che ci inquietiamo di più, ma per loro è normale sentire il racconto di una persona che non è potuta andare a scuola perché non c’erano i soldi per comprare i libri. L’anno scorso molti allievi in Dad non potevano connettersi perché avevano esaurito i giga del telefono e non avevano i soldi per fare la ricarica… In qualche modo è come non avere i soldi per comprare i libri e non andare più a scuola. L’illusione che alcuni diritti fossero garantiti per sempre è crollata e per i nostri ragazzi è scontato sia così. Allora di fronte a questi racconti remoti ma anche prossimi, nel senso di prossimo futuro possibile, non auspicabile ma possibile, si identificano. 

 

Cosa farete del materiale non utilizzato per Il tempo rimasto?

Ci piacerebbe recuperare e onorare la ricchezza del materiale che abbiamo raccolto. Con i nostri partner, Istituto Luce e la Rai, stiamo cercando di capire se è possibile  fare una piccola serie, magari suddivisa per nodi tematici, che restituisca la potenza di questo materiale. Mi piacerebbe molto perché ci sono cose che ho dovuto lasciar fuori dal documentario ed è stato come segarsi un braccio.