Candidata all’Oscar nel 2007 con la pellicola Water – il coraggio di amare, la regista indiana Deepa Mehta ha una lunga filmografia all’attivo, che comprende Sam & Me (1991) e I figli della mezzanotte (2012), tratto dal romanzo omonimo di Salman Rushdie. Attualmente al lavoro su Funny Boy, di prossima uscita, Deepa Mehta si misura con lo spirito dei tempi cimentandosi con le serie TV, come regista di un episodio di Little America, e con il genere della distopia, come produttrice, sceneggiatrice della serie Leila, trasmessa da Netflix, di cui firma la regia per due episodi. In quest’intervista, Deepa Mehta ci parla proprio della sua esperienza televisiva.
Leila è una serie TV distopica di produzione indiana che Netflix ha deciso di inserire nel proprio catalogo europeo. Ci sono molti elementi che sono tipici del genere che possono essere apprezzati dal pubblico europeo, ma sembra esserci qualcosa che si riferisce maggiormente alla cultura indiana . Dico bene? Può darci la sua opinione riguardo a questi elementi?
Vista la natura dei temi trattati in Leila, sia dal punto di vista sociale che politico, c’è qualcosa di molto pertinente alla situazione attuale in India e nel mondo, anche se la vicenda è ambientata nel futuro. Uno scenario del genere potrebbe tranquillamente realizzarsi negli anni a venire, il che rende la serie un’opera importante in cui è possibile identificarsi. La distopia finora non aveva mai esplorato davvero il contesto indiano, il che rende Leila un’esperienza visiva nuova, oltre che riconoscibile, per il pubblico indiano. A posteriori, la lotta con “l’altro”, nel caso di Leila i musulmani marginalizzati nello stato governato dagli Hindu “puri” chiamato “Aryavart – la terra degli ariani” è un riferimento molto specifico al contesto indiano. In ogni caso, un anno dopo il mondo sta lottando con “l’altro marginalizzato” in maniere che non avremmo mai sognato prima. Naturalmente mi riferisco all’America di Trump. Alla politica idiota e completamente narcisista su cui ha basato un mandato presidenziale profondamente divisivo. Black lives matter non ha alcun significato per lui. Il Brasile del populista Bolsonaro non è affatto diverso.
La BBC ha definito Leila “La versione indiana di Il racconto dell’ancella”. Si trova d’accordo con questa definizione. Quali crede siano le somiglianze e le differenze con il lavoro di Margaret Atwood?
Leila, come Il racconto dell’ancella, è un serie ispirata a un romanzo distopico. E come la maggior parte dei racconti distopici, trova le sue radici nel contemporaneo, questo probabilmente collega le due serie, insieme al fatto di avere una protagonista femminile. Molte società contemporanee nel mondo soffrono una forte disuguaglianza di genere, misoginia e patriarcato. Quindi capisco perché vengono fatti dei paragoni. Ma in termini di trama e ambientazione, Leila è una serie specificamente indiana, profondamente radicata nelle complessità della cultura e della mentalità indiana.
Con Leila ha scelto una storia e un’ambientazione che ricadono sotto la definizione ombrello di speculative fiction. Per quale motivo? Quali sono le potenzialità narrative del genere?
Ho letto Leila,di Prayaag Akbar, tempo prima che mi fosse proposto di realizzare la serie. I romanzi distopici mi hanno sempre intrigato. La maggior parte sono ammonimenti su quanto tetro il futuro può farsi se non agiamo nel presente. Scelgo le storie che voglio raccontare basandomi su ciò che mi incuriosisce. Visto che ho amato il libro di Prayaag, e che non mi ero ancora misurata con un argomento di questa importanza, ho accettato la proposta non appena l’ho ricevuto. E sapendo che un’India distopica non era mai stata raccontata prima, il potenziale narrativo era enorme.
Cosa rende il futuro di Leila plausibile nell’India contemporanea?
Leila è contro la deumanizzazione, la misoginia, le divisioni di classe, il pensiero totalitario. E queste lotte sono generalizzate in tutto il mondo, non solo in India. E se non facciamo niente, il futuro di Leila rischia di diventare il destino di molte persone.
Qual è la sua opinione sull’impatto della cultura indiana sull’economia, sulla politica e sulla cultura stessa a livello planetario?
Per molti l’India è ancora considerata un posto “esotico”, il paese che ha portato nel mondo lo yoga, la religione e la meditazione, la terra dei vestiti colorati, del Taj Mahal, delle persone tranquille e del buon cibo. In pochi si rendono conto che l’eredità di Gandhi sta sparendo rapidamente in seno alle divisioni enormi fra la minoranza ricca e la maggioranza povera. In pochi anni l’India è diventata uno stato completamente fascista. Un tempo era la più grande democrazia del mondo, oggi la libertà dei suoi cittadini è del tutto compromessa. Oggi l’india è assimilabile all’America di Trump, alla Turchia di Erdogan e al Brasile di Bolsonaro. Uno scenario straziante.
Può raccontarci qualcosa dell’episodio di Little America da lei diretto?
Little America non è solo una serie antologica basata sulle storie dei migranti in America, è un inno all’umanità. “The manager”, l’episodio che ho diretto, esplora le tipiche paure che accompagnano i migranti nel tentativo disperato di “integrarsi” e di essere accettati in un posto a cui potrebbero non appartenere mai completamente, o in cui sono considerati “l’altro”. Racconto la storia di Kunal, un bambino indiano che cresce in Utah, e della sua lotta dopo che i suoi genitori vengono rimpatriati. Racconto il suo viaggo di corsa verso il loro motel, delle sue mattine di scuola passate a sognare il giorno in cui li avrebbe rivisti, un sogno che potrebbe diventare realtà in seguito all’eventuale vittoria a un’importante gara di spelling, che lo porterebbe alla Casa Bianca dandogli la possibilità di perorare la causa della sua famiglia.
(Si ringrazia Federica Foglia per la collaborazione)