Edda, il redivivo del rock

È un redivivo del rock Stefano Rampoldi in arte Edda. Con i Ritmo Tribale, band dal suono aspro e militante di cui era il frontman, contribuì alla prima semina (a cavallo tra anni ’80 e ’90) in quella scena milanese che sarebbe divenuta il terreno d’elezione principale dell’indie rock nazionale. Rispetto ad allora, l’artista oggi 54enne, ha sviluppato uno stile meno ribellistico, fondato su un rock intimo, dal sound più morbido, almeno in studio; ma non ha perso lo spirito indipendente che ne caratterizzava le sortite giovanili, ora al servizio di testi da vita in presa diretta, pensieri lancinanti declinati in rock. D’altronde la sua voce, capace di artigliare l’anima come poche altre, è addirittura migliorata, sublimata da una timbrica particolare, insieme infantile e profondamente estesa, capace di sorprendere variando registro, tono e ritmo nella stessa canzone. Ne sono prova Semper biot (2009), Odio i vivi (2012), Stavolta come mi ammazzerai? (2014), dischi pubblicati molto tempo dopo aver lasciato i Ritmo Tribale, mentre si manteneva facendo l’operaio nei cantieri edili. Il periodo di totale sparizione dai radar è durato infatti tredici anni, e nacque con uno stacco netto: avvenne nel 1996, mettendo fine ad un malessere che da qualche tempo lo accompagnava sul palco e che proprio sul palco un giorno si manifestò in maniera repentina, con la nausea e poi la fuga. Smarrite le coordinate e la serenità, Edda abbandonò il mondo della musica, vagando tra abissi artificiali, ricerca ed esperienze mistiche di tipo orientale. Che il ritorno sia ormai definitivo lo ha confermato, all’inizio del 2017, l’album Graziosa utopia. Un lavoro pregevole, cuore dei live che il cantautore milanese sta portando in giro per la penisola, riscuotendo ovunque consensi, e accreditandosi (anche senza volerlo) come punto di riferimento per tutta una nuova generazione di songwriter del panorama indipendente. Abbiamo intervistato Edda in occasione del suo approdo novembrino alla Latteria Molloy di Brescia, un club che lo ospita con buona periodicità.

 

Nel 2009 hai declinato in milanese (Semper biot significa infatti “sempre nudo” in dialetto meneghino) la tua disponibilità a mostrarti e raccontarti senza filtri. Il nuovo disco prosegue su quella strada, ma ora hai cambiato sonorità…

Graziosa utopia è sempre intimo nei toni, ma decisamente meno rock rispetto al passato, un po’ più pop. Ne sono soddisfatto, ha gli arrangiamenti che volevo per apparire più immediato. E più immediato di così c’è solo Cristina D’Avena (segue una genuina risata, ndr)…

 

Il titolo abbina un aggettivo e un sostantivo che sembrano non attrarsi. Ho il sospetto che l’attenzione sia da porre più sul primo che sul secondo…

È così: “grazioso” è il mood dell’album e sottolinea la voglia di leggerezza, di gioia. Considerato che la vita è una prigione, che le cose belle e pure le brutte arrivano comunque, e che lamentarsi non serve a nulla, tanto vale votarsi alla bellezza.

 

Dal vivo, però, l’anima rock non riesci a trattenerla…

In effetti nei live le sonorità cambiano molto: di pop ne rimane davvero poco.

 

Continui a fare l’operaio edile sui ponteggi?

Ho smesso, ed è un peccato. Mi sarebbe piaciuto continuare, perché si trattava di un lavoro che mi permetteva uno stacco rispetto alla musica che, se fatta in maniera esclusiva, può anche essere alienante. Ma gli orari delle due attività non erano conciliabili: presentarmi in cantiere il lunedì mattina prima dell’alba, dopo aver passato le serate del week-end in giro a suonare, non garantiva certo sulla mia lucidità, e il mestiere non è di quelli che consentono distrazioni…

 

Ti manca l’esperienza collettiva dei Ritmo Tribale?

Ma io faccio musica in compagnia anche ora… Mi chiamano cantautore, ma scrivo perlopiù i testi, mentre musica e arrangiamenti sono opera dei miei compagni di strada, che poi in buona parte suonano con me nei live. È come essere in una band.

 

Che effetto ti fa sentire Huomini dei Ritmo Tribale cantata da Mauro Ermanno Giovanardi e Manuel Agnelli, estratto di un’antologia (La mia generazione firmata dallo stesso Giovanardi) che celebra una stagione feconda e creativa?

La loro versione è molto bella, più della mia. È gratificante che due mostri sacri come loro ripropongano un pezzo che ha rappresentato molto per me; scelta azzeccata, come pure, tra le tracce di quella stessa raccolta, è perfetta Baby Dull degli Üstmamò, in cui Giò si fa accompagnare da Rachele Bastreghi.

 

Che tracce ha lasciato quella generazione?

Vedi, io penso che la musica italiana dagli anni Settanta in poi (e forse anche prima) abbia proposto molte cose buone. Mentre la mia generazione, che era cresciuta con il punk e con la lingua inglese, cercava di imporre il rock sulla scena chiamata alternativa, è la musica leggera italiana nel suo complesso che ha fatto cose che sono durate. Per esempio: trovo che anche i Ricchi e Poveri, nel loro genere, abbiano lasciato impronte capaci di influenzare chi è venuto dopo. Non è questione di genere o di generazione, ma di qualità: nella musica italiana c’è n’è tanta, basta cercarla, che la trovi.