Lo scorso anno ha vinto il premio Ubu come miglior attore under 35, ma Fabrizio Falco, classe 1988, ha alle spalle una lunga carriera a teatro. Ha lavorato, tra gli altri, con Carlo Cecchi, Valerio Binasco, Romeo Castellucci, ma soprattutto con il maestro Luca Ronconi (Lehman Trilogy, Il Panico, In cerca d’autore. Studio sui sei personaggi ed è tra gli allievi che compaiono in La scuola d’estate, il bel documentario che Jacopo Quadri ha dedicato al lavoro di Ronconi nella residenza estiva di Santa Cristina). Il cinema non poteva non accorgersi di lui: prima lo ha voluto Ciprì per È stato il figlio e poi Marco Bellocchio per Bella addormentata (e per queste due interpretazioni si è subito aggiudicato il premio Mastroianni alla 69 Mostra del cinema di Venezia). Poi è stata la volta dei fratelli Taviani che gli hanno affidato il ruolo di Dioneo in Maraviglioso Boccaccio. Abbiamo incontrato Fabrizio Falco a Milano, al Teatro Franco Parenti, dove è in scena con Cock del drammaturgo inglese Mike Bartlett, per la regia di Silvio Peroni. Accanto a lui gli ottimi Enrico Di Troia, Sara Putignani e Jacopo Venturiero. Lo spettacolo racconta di un curioso triangolo amoroso: John vive da anni con il suo fidanzato, ma un giorno incontra una ragazza che mette in dubbio tutte le sue certezze, ponendolo di fronte a un grande dilemma che lui sembra del tutto inadeguato ad affrontare. Messinscena minimal, dialoghi serrati e attori che si muovono su un ring con tanto di campanello da fine incontro a scandire le scene, o meglio i round tra i personaggi. Un raffinato spettacolo che ha il pregio di presentare, su un tono scanzonato, argomenti di peso: dall’identità (sessuale, ma anche e soprattutto esistenziale) alla famiglia, al superamento dei generi.
Come ti sei calato nel personaggio di John?
Il lavoro è cominciato nel 2012 a Roma, quando abbiamo fatto una mise en espace di Cock durante il festival di drammaturgia contemporanea Trend. Da lì ci sono state diverse fasi e ogni volta che lo abbiamo ripreso siamo andati ad approfondire determinate tematiche o situazioni in cui vengono a trovarsi i personaggi, quindi è un lavoro di stratificazione. Sono molto affezionato a questo testo e a questo personaggio. Essendo John un personaggio che manifesta un’ambivalenza, attraverso una relazione con un uomo e una relazione con una donna, semplicemente ho cercato di reagire alle varie situazioni, di entrare per così dire nelle circostanze del personaggio, senza pensare che lei è una donna o che lui è un uomo. Mi sono chiesto cosa farei io, Fabrizio, se mi trovassi in una situazione del genere.
Tra l’altro è interessante che più che di orientamento sessuale, lo spettacolo parla della paralisi di John, incapace di scegliere.
Sì, è un testo che presenta diversi temi e diversi strati di lettura. Sicuramente il tema dell’omosessualità è importante e centrale, ma ancora più importante e universale è il tema dell’identità, il non sapere cosa siamo, o meglio chi siamo, il non ritrovarsi in un’etichetta che spesso ti viene affibbiata attraverso una maschera sociale che sei costretto a mettere. Non riconoscersi in niente di tutto questo provoca un forte disagio interiore che in Cock è evidente nel personaggio di John.
Paradossalmente però John è l’unico ad avere diritto a un nome…
Si, quello che cerca la sua identità è l’unico ad avere un nome, mentre gli altri personaggi hanno una personalità molto forte e quindi possono farne a meno.
Tu vieni dal teatro, ma sei molto richiesto anche dal cinema. Come è avvenuto l’incontro con i grandi registi che ti hanno diretto?
Diciamo che la questione del cinema è stata per me abbastanza casuale. Sicuramente sono stato molto fortunato nel fare degli incontri molto importanti subito e questo mi ha permesso di partecipare a progetti di un certo spessore, ma non è una cosa che ho cercato volontariamente.
Come scegli i progetti a cui aderire?
Avendo avuto la fortuna di fare cinema con dei maestri, con delle personalità di cui ho grande stima, ho avuto modo di vedere il cinema come una grande possibilità creativa, quindi i progetti che mi permettono quel tipo di approccio li faccio, gli altri no. Non lo dico per snobberia, però è così anche perché obiettivamente sento il cinema come se non fosse proprio il mio mestiere.
Adesso cosa stai facendo?
Per tutto il mese di marzo sono impegnato nelle riprese dell’opera prima di Andrea Tagliaferri, l’assistente di Matteo Garrone. E la scorsa estate ho girato un’altra opera prima, Le ultime cose di Irene Dionisio, una giovane regista di Torino, che dovrebbe uscire presto.
Tornando al teatro, tu sei anche regista (Partitura P, da tre novelle di Pirandello e Ritratto d’Italia da uno scritto di Leopardi). Il 5 aprile debutta allo Stabile di Torino il tuo nuovo spettacolo, Galois. Di cosa parla?
È un monologo su un testo inedito di Paolo Giordano che racconta di un matematico francese dei primi dell’800, Évariste Galois, e attraverso di lui si ripercorre la storia di quel periodo post rivoluzione francese. È interessante perché poi travalica il discorso dell’epoca per fare il ritratto di un artista. Galois, pur essendo un uomo di scienza, è stato in realtà un giovane incompreso che è stato compreso solo quando è morto, a 21 anni in un duello per una donna, sfidato dal marito di lei. Il testo prende spunto da un dato biografico vero: la notte prima di morire Galois scrive una lettera a un amico matematico lasciandogli tutte le sue formule, le sue scoperte. Giordano ha romanzato questa lettera per ripercorre un po’ tutta la sua vita, l’esperienza in comune con l’amico… È un flusso di pensieri e di ricordi scandita dall’ansia per il duello e dalla certezza della morte.
Non ti fermi mai?
Ho tanti progetti… E li voglio fare tutti bene, dedicando tutte le energie fisiche e mentali. A volte questo è sfiancante. Però non mi posso proprio lamentare, faccio cose belle.
Milano Teatro Franco Parenti fino al 28 febbraio