È uno che da sempre brucia le tappe Francesco Mazza: a 18 anni ha cominciato a lavorare in Tv come ospite ricorrente nei programmi di Michele Santoro quando ancora doveva fare la maturità, poi è passato a Striscia la notizia dove è rimasto per nove anni. Successivamente si è trasferito negli Stati Uniti per frequentare la New York Film Academy di New York perché voleva fare il cinema «nella scuola di Spike Lee e Amos Poe» e Frankie, il cortometraggio che ha realizzato per la sua tesi di laurea, è stato finalista ai Nastri d’argento nel 2016. Ha poi realizzato il documentario Graffiti a New York e, da ultimo, ha diretto la web serie Estremi rimedi, dedicata ai trentenni italiani, «quelli considerati giovani solo in Italia», scritta e interpretata insieme a Daniele Balestrino. In meno di una settimana i quattro episodi hanno superato le cinquecentomila visualizzazioni. Decisamente Francesco Francio Mazza non sbaglia un colpo.
Ma è anche un giornalista come non ne esistono più. I suoi articoli, pubblicati su Gli Stati Generali e Linkiesta, sono delle perle rare che radiografano lo stato delle cose e non lasciano indifferenti. “La vignetta di Charlie spiegata a mia madre” gli è valso il prestigioso Macchianera Award e l’invito nella redazione blindata di Charlie Hebdo due anni dopo gli attentati del 2015 (il racconto è finito direttamente sulle pagine del quotidiano Libération, mentre in Italia nessuna testata ha mostrato interesse per questo scoop). In “Cara Palombelli, anche Giulio Regeni senza coraggio?” rimette al suo posto la conduttrice di Forum convinta che «non c’è un solo giornalista famoso venuto fuori dalla grandiosa narrazione del web», mentre in “Il caso Regeni è l’esempio di questa Italia che chiagne e (se ne) fotte” fa una lucidissima analisi dell’indignazione fine a se stessa. E l’elenco potrebbe continuare. Finalmente qualcuno che pensa delle cose sensate e che le dice. Di questi tempi non è scontato. Lo abbiamo incontrato.
Sei sempre convinto che abbiamo in noi gli anticorpi per andare avanti?
Sì, ma penso che ci raccontiamo molto peggio di come siamo. Succede perché un tempo leggevamo Indro Montanelli e Enzo Biagi, oggi, quando riflettiamo su noi stessi come comunità, leggiamo Aldo Cazzullo o Beppe Severgnini.
La situazione del giornalismo in Italia non è delle migliori…
C’è una grave crisi del giornalismo. Le persone che hanno la responsabilità di raccontare il Paese sono meno sensibili, meno capaci, meno colte, meno calate nella realtà dei lettori. E questo crea una distopia, così che quando si legge il racconto del Paese si vede una realtà più semplificata, demagogica, retorica di quella che è la reale percezione dell’opinione pubblica italiana che, invece, è molto più avanti.
Cosa te lo fa pensare?
Il fatto che l’episodio di Estremi rimedi con la satira sull’Isis ha duecentomila visualizzazioni e neanche un commento negativo. Oppure che l’articolo in cui sostengo che la satira di Charlie Hebdo sulla vignetta del terremoto di Amatrice può non essere condivisibile e apprezzata, ma il fatto che ci sia è importante perché testimonia la libertà di una società di esprimersi, guadagna un milione di letture e viene tradotto in diverse lingue. Per questo credo che le reazioni positive a quello che faccio io – e a quello che fanno altri sul web – dimostrino che l’opinione pubblica è più avanti di quello che uno può pensare se legge il Corriere della Sera.
Quali sono, secondo te, i problemi maggiori?
La situazione è abbastanza complicata e, quindi, positiva perché nel caos di solito sul lungo periodo nascono delle possibilità e del rinnovamento. Uno dei problemi, secondo me, è che in Italia, dagli anni 70, tutto è strumentalizzato dalla politica. Persino i primari degli ospedali vengono nominati dalla politica ed è assurdo, figuriamoci i mezzi di comunicazione. Siccome c’è un movimento politico, quello dei Cinque Stelle, accreditato di largo consenso che ha preso le mosse sul web, negli ultimi anni è venuto fuori un contro movimento di opinione inteso a demonizzare qualunque cosa provenga dal web. E quindi, per esempio, leggiamo sul giornale di Confindustria, gli interventi di una giornalista che sostiene che bisogna far pagare Internet perché è profondamente sbagliato che chiunque possa esprimere la propria opinione sul web. Che è un po’ il senso di ciò che dice la Palombelli quando sostiene che dal web non è venuto fuori nessuno di autorevole, invece è un’idiozia perché continuamente vediamo in Tv, al cinema, in libreria libri, film e programmi televisivi fatti da persone che vengono dal web e che spesso sono sconosciuti a chi non lo frequenta. Il web è semplicemente uno specchio dell’umanità e quindi ci sono tutte le sfaccettature: ci sono i complottisti, i paranoici, i trumpisti, i fascisti e poi ci sono anche giornalisti, scrittori, intellettuali liberi che hanno la stessa dignità, se non maggiore, di quelli che hanno avuto la fortuna o le conoscenze di cominciare direttamente su mezzi di comunicazione più ricchi, e che contribuiscono al dibattito culturale esattamente nello stesso modo. Per questo penso ci sia un movimento di opinione nella società che punta a delegittimare il web in forza di un disegno politico.
Perché?
Perché gli altri mezzi di comunicazione sono in larga parte controllati dalla politica e quindi, automaticamente, si demonizza il web per demonizzare quelle forze politiche che dovrebbero venire dal web e che, in realtà, così non è perché nel momento in cui il candidato premier del movimento Cinque Stelle mette la lingua in bocca a San Gennaro, pomiciando con il sangue, è evidente che quella cosa lì non parla il linguaggio del web, di Google, o delle Start Up, ma parla il linguaggio del nazional popolare più becero. [cfr. l’articolo “Di cosa parliamo quando parliamo di Movimento Cinque Stelle” su Gli Stati Generali, 20/9/2017, ndr.]
Quali sono le possibili cause?
C’entra il fatto che non abbiamo assolutamente il criterio della professionalità. Conosco bene la realtà americana che dando molta importanza al merito dà molta importanza alla professionalità e, quindi, riconosce l’autorevolezza di una persona relativamente al proprio lavoro, al proprio merito appunto. Invece da noi, disdegnando e odiando il merito, umiliamo la professionalità e, quindi, abbiamo un sacco di professionisti in tutti gli ambiti, ma che non vengono riconosciuti. E si arriva al paradosso per cui se uno ha successo in qualche ambito diventa un brand, esportabile in tutti i settori col risultato che viene umiliata la professionalità di chi lavora nei diversi settori.
C’è una testata cartacea su cui ameresti scrivere?
Il Newsweek perché mi piacerebbe molto fare dei reportage. Può sembrare banale, ma a me in tutti i lavori che faccio interessa raccontare una storia. È questo che mi affascina perché nel momento in cui a un’idea, a un concetto attacchi il coinvolgimento emotivo di una storia allora, secondo me, riesci a comunicare qualcosa.
E in Italia?
Non vedo nel panorama editoriale italiano una testata che sia interessata alle storie, alle idee da un punto di vista non ideologizzato. Vedo, piuttosto, una guerra continua tra bande che utilizzano le storie, i reportage, le inchieste come manganelli per darseli in testa e fare gioco di sponda, cioè favorire il proprio mammasantissima. Per quello scrivo sul web e quando ho avuto degli abboccamenti con editori che invece si occupano di carta stampata, ho perso l’entusiasmo perché mi sono reso conto che non era in discussione la qualità del mio lavoro, ma era in discussione quanto io potessi essere funzionale a un progetto più ampio e questo mi ha sempre demotivato.
Passiamo al successo di Estremi rimedi. Dopo l’incredibile numero di visualizzazioni hai scritto «Ora cerchiamo un Produttore-Santo che operi il miracolo della transustanziazione, e trasformi le views in risorse necessarie a trasformare questo esperimento in una vera e propria Serie. Che sia web, tv o dagherrotipo non ha importanza». Ci siete riusciti?
La questione del web è interessante perché per definizione dovrebbe essere democratico. In realtà è molto controllabile, per cui il dato sulle visualizzazioni conta fino a un certo punto. Noi i soldi li avevamo finiti ancor prima di iniziare, quindi non siamo tacciabili di aver fatto modifiche strane per aumentare le visualizzazioni come, invece, era stato fatto per un progetto di tre anni prima che si intitolava Vera Bes che fece tante visualizzazioni tutte pilotate dalla casa di produzione. D’altra parte, ci sono serie web che hanno ricevuto visualizzazioni ridicole e hanno trovato produttori che le hanno portate a diventare serie tv che sono state flop clamorosi. Quindi è difficile trovare una misura. Vedremo, qualcosa si sta muovendo… Ormai la mia filosofia di vita, oltre alla filosofia zen che è l’unica cosa che ti permette di rimanere vivo in Italia, è trovare la soddisfazione in quello che fai e nel caso di Estremi rimedi sta nel fatto che molta gente l’ha visto e si è divertita. Se dovessi aspettare che si muova il mercato televisivo o cinematografico mi sarei già buttato dal ponte.
Vivi tra New York e Milano. Da un punto di vista lavorativo, quali sono le differenze?
Negli Usa hai una possibilità vera, te la giochi e se vinci a quel tavolo lì dopo, come dicono loro, «Sky’s the limit», il limite è il cielo. La tua sceneggiatura può venire letta da persone di fascia alta, persone che qui non ti saluterebbero nemmeno per strada. Anche lì ti devi sbattere, ma quando arrivi alla persona giusta vieni ascoltato. Da noi ti trattano come fossi un paria, come se tu stessi mendicando qualcosa, mentre in realtà gli stai proponendo del lavoro, del guadagno.
Che progetti hai per il futuro?
Il mio obiettivo di vita è realizzare un lungometraggio. Continuerò a provarci sapendo che la realtà non è quella del XX secolo, le strade con cui adesso uno arriva al cinema in Italia sono molto complicate. E di nuovo non hanno a che fare con il merito.