Giuliana Musso: Mio eroe e il teatro come scelta politica

Attrice, ricercatrice, autrice: così si definisce Giuliana Musso, voce (e corpo) di un tipo di teatro che fa fatica a essere incasellato in una qualche categoria. Per i suoi spettacoli si è parlato di “teatro di narrazione”, di “teatro d’indagine”, ma anche di “giornalismo teatrale”. Sicuramente alla base c’è il “teatro civile”, declinato in vari stili: da quello clownesco di Tanti saluti (che affronta il tema del morire ai giorni nostri) a quello di memorie (Nati in casa che racconta la storia di una levatrice in un paese di provincia del nord-est), da quello che indaga il fenomeno della prostituzione (Sexmachine, Premio della critica 2005) o la dimensione umana del sacerdozio (La fabbrica dei preti) fino alla guerra contemporanea di Mio eroe. Come recita la motivazione del Premio Hystrio alla drammaturgia vinto nel 2017 dalla Musso: «La nascita, la morte, la fede, il sesso, la guerra: temi che toccano fino in fondo le donne e gli uomini contemporanei sono stati da lei esplorati con strumenti affini al giornalismo d’inchiesta e poi traslati in una drammaturgia limpida, portata in scena il più delle volte in forma di monologo, coinvolgente e sempre consapevole di ciò che il corpo del performer racconta a chi guarda». Mio eroe, ispirato alla biografia di alcuni dei 53 militari italiani caduti in Afghanistan durante la missione ISAF (International Security Assistance Force che dal 2001 al 2014 avrebbe dovuto garantire un ambiente sicuro a tutela dell’Autorità provvisoria afghana insediatasi a Kabul), è in scena al Teatro dell’Elfo di Milano dal 13 al 18 febbraio, per poi proseguire la tournée in altre città. Abbiamo incontrato Giuliana Musso.

È molto bella la frase in apertura del tuo sito che riporta il teatro alla sua origine di condivisione di «una comunità che si riunisce».

È così che sono nata nel senso che fin dall’inizio quello che mi piaceva del teatro era che avveniva insieme a me pubblico. La caratteristica del teatro è proprio la relazione presente, concreta, vera. A volte, nei grandi teatri, ci sono altre cose, magari trovi linguaggi molto sofisticati, ma per me la comunità che si riunisce per ascoltare una storia per divertirsi insieme è un punto fermo, uno dei punti cardinali anche a scapito di una certa allure che si va a perdere, una certa eleganza, sofisticatezza nel linguaggio e nelle forme a favore di un linguaggio più popolare. Ma lo fai con consapevolezza, lo fai per scelta politica.

 

Il tuo teatro è difficilmente catalogabile…

Sì, non sanno più come definirlo. La struttura di ricerca è simile all’antropologia, alle ricerche con uno sguardo molto sociologico sulle cose. Io faccio ricerca teorica e sul campo, però poi il teatro inietta dentro a questi contenuti qualcosa che forse solo il teatro può metterci che è il passaggio attraverso il corpo dell’attore che consente un passaggio di testimonianza dell’esperienza umana e se l’esperienza umana è tale, è emotiva (se non lo è, non è umana). Quindi questa iniezione di emozione, di sentimento attraverso il corpo, con un corpo che si espone, che si mette a disposizione forse lo scolla un po’ da quella che è la nostra immagine canonica del teatro di narrazione. C’è un coinvolgimento in più, che poi alla fine passa anche attraverso il corpo del personaggio, perché quando noi diciamo “teatro di narrazione” immaginiamo un narratore che ci racconta una storia. Io di spettacoli con un narratore che racconta una storia ne ho fatto solo uno su tanti. A me comunque, come definizione, piace “teatro d’indagine” perché mette l’accento sulla parte della ricerca che in fondo è la parte più consistente.

 

Tu nasci come attrice, ti sei diplomata alla Paolo Grassi, poi dal 2001 ti sei dedicata esclusivamente a progetti di teatro d’indagine, firmando tutti i testi che porti in scena.

Sì, per l’esigenza di dire cose che mi interessavano perché come attrice scritturata non avevo tante occasioni di dire cose interessanti. A me il teatro di prosa ha sempre annoiato tantissimo – e mi annoia tuttora – sia a lezione sia per i contenuti perché di opere teatrali, di drammaturgie veramente interessanti non ce ne sono tante, spesso vengono rese interessanti dalle regie, dagli attori. Negli anni in cui ero ragazza, mi sono interessata e occupata di teatro comico, ne ho fatto tanto, commedia dell’arte e appunto la narrazione. Quindi per me arrivare alla scrittura, passando attraverso il gioco dell’improvvisazione e il teatro comico, è stato naturale.

In Mio eroe dai voce a tre madri che hanno perso i figli in Afghanistan. Perché hai sentito l’esigenza di parlare della guerra?

Perché conclude un percorso che è iniziato dopo Tanti saluti, nel 2008, spettacolo con cui ho chiuso la trilogia sui fondamentali della vita (nascita, sesso, morte) e ho iniziato una specie di indagine mia personale sull’origine della violenza e della dispersività con l’idea che noi nasciamo gioiosi, pacifici e consapevoli del bello e del bene e poi ci ritroviamo in un mondo che si sta autodistruggendo, dove la violenza e la menzogna hanno preso il sopravvento. E da lì ho fatto uno studio sulle origini del patriarcato, passando attraverso i fondamentali del patriarcato nell’ambito del sacro (con La fabbrica dei preti). Dovevo fare questa indagine su quello che è forse il più importante dei pilastri che tiene su il sistema distruttivo e patriarcale da millenni che è la violenza di sistema, ovvero la guerra. Le nostre economie, le nostre società, le nostre culture sono culture di guerra, la guerra pervade tutto. È guerra agli esseri viventi, è guerra all’ambiente, è guerra a tutto. A monte di tutte queste guerre – direi la madre di tutte le guerre – è la guerra alle donne.

 

L’idea di dar voce alle madri sposta totalmente la prospettiva…

Ho scelto di utilizzare la voce della madre come voce del sentimento, potrebbe essere anche un padre se fosse “materno”, mi riferisco all’essere umano che attiva processi cognitivi fondati sul sentimento, sull’attaccamento perché penso che questa sia la forma più alta di intelligenza. E credo che, proprio per questo motivo, le madri sono state espulse violentemente dallo spazio politico e pubblico. È stata tolta loro la parola, l’unica parola concessa è il lamento. Io, invece, in questo spettacolo, rendo politico il lamento, quasi teologico – ci metto dentro anche una riflessione sul senso del sacro – e culturale perché l’ultima madre è quella che ci interroga più profondamente sull’educazione dei figli e sulla nostra visione più ampia della guerra. Mentre la seconda madre ci chiede chiaramente conto di che cosa abbiamo fatto in Afghanistan politicamente, alza il velo sulla menzogna, sulla retorica di questa cultura militarista. Sono donne che hanno tutto il diritto di farci queste domande.

 

Anche perché come sempre è una guerra che non è servita a nulla…

Nello spettacolo lo dico chiaramente, la situazione è peggio di prima. Prima che noi andassismo là, non c’era una guerra, c’era un regime talebano, ma non c’era una guerra. Una delle madri dice anche che prima che venissero loro da noi, siamo andati noi da loro. Quindi queste madri riescono a dire cose che non ti aspetteresti…

Il testo è stato selezionato per “The Italian & American Playwrights Project“.

Sì, hanno tradotto un brano di una ventina di minuti e hanno scelto il pezzo in cui parlo delle Torri gemelle, degli americani, in cui dico che è una vendetta che non ha senso visto che nell’attentato dell’11 settembre sono morti 3000 cittadini, colpiti dai terroristi, in Afghanistan i soldati morti di tutta la coalizione sono stati 3500. E la madre si chiede che senso abbia… Come se per vendicare un figlio ne mandi un altro a farsi ammazzare. Per ottenere cosa? Tra l’altro proprio in questi giorni The Express Tribune ha pubblicato un’inchiesta dicendo che il 70% del territorio afghano è in mano ai Talebani, praticamente dopo 16 anni di guerra e di massacri, di perdite umane inestimabili…

 

Che aspettative avevi sull’accoglienza da parte del pubblico?

Quando ho debuttato con Mio eroe mi sono detta che ero pazza, avevo veramente tanta paura di un rifiuto. Così tanto dolore, tre madri che piangono… Mi dicevo, questo è un mattone, non andrà mai giù. E invece piano piano ho capito che va bene così, che se io devo parlare di guerra, questo devo dire. Perché la guerra è questo.

 

Foto di Massimo Battista e Luigi De Frenza

www.giulianamusso.it

 

Tournée Mio eroe

Milano                   Teatro Elfo Puccini   13-18 febbraio

Codroipo (UD)     Teatro Benois De Cecco    6 marzo

Porto Viro (RO)    Sala Eracle                9 marzo

Parma                       Teatro al Parco          10 marzo

S. Vito al Tagliamento (PN)       Auditorium Comunale     11 marzo

Lodi                            Teatro alle Vigne        20 aprile

Varese                        Teatro Verdi                26 aprile