Era il 1999 quando l’uscita nei cinema di Star Wars Episodio I: La minaccia fantasma segnava il ritorno alla regia di George Lucas dopo una pausa di ventidue anni. Un comeback accolto in un misto di eccitazione e scetticismo, a seconda delle divisioni tra chi amava la saga stellare e chi pensava fosse ormai un reperto del passato. Per una curiosa circolarità temporale, quel film di anni ne ha appena compiuti venticinque, è tornato da poco nelle sale americane con buon riscontro e Lucas è invece arrivato al Festival di Cannes per ricevere la Palma d’Oro onoraria, accolto trionfalmente dal direttore Thierry Fremaux e da un pubblico accalorato nella rituale standing ovation. Lui, il regista di Modesto, California, nel frattempo non ha perso i modi essenziali di chi si sente sempre un po’ pesce fuor d’acqua: con camicia a quadri e sneakers d’ordinanza, non guarda il pubblico in piedi, accorso per seguire la sua masterclass e si dirige verso la sedia, tanto che il direttore deve fermarlo e spingerlo a godersi quel meritato trionfo. Non esiste probabilmente immagine più rappresentativa per descrivere la peculiare parabola di un uomo schivo, che sognava di fare il pilota d’auto da corsa o al più di lavorare nel campo dell’animazione e che invece è passato alla storia come un creatore d’universi per una platea che coinvolge ormai più generazioni. “The Maker” lo chiamano ancor oggi i suoi ammiratori, citando una delle espressioni di Guerre Stellari, una definizione che lui non ha mai abbracciato ma che pensiamo non debba risultargli poi particolarmente sgradita data la sua propensione a fare, più che a celebrare o presiedere alle cerimonie. In fondo, lo ha ricordato nello stesso incontro sulla Croisette, lui fa parte di quella generazione che non voleva fare i soldi, ma semplicemente i film.
Nell’ambito di un’ora e mezza d’incontro in cui ha raccontato la sua carriera, Lucas è apparso tranquillo, intento con dedizione a smontare molti luoghi comuni della macchina-cinema: che è un meccanismo faticoso ma anche una grande opportunità cui un tecnico come lui si è votato perché affascinato dalle immagini in movimento, dal montaggio e dalle tecnologie, che lo hanno poi portato a dare un contributo irripetibile al passaggio dall’analogico al digitale. Ma è anche un mondo chiuso dove non si entra facilmente: la sua generazione, quella di Coppola e Spielberg, ha avuto fortuna perché alla fine degli anni Sessanta i moloch che avevano creato Hollywood erano arrivati a fine carriera e si stavano facendo da parte. Gli Studios non sapevano come andare avanti e perciò andarono a cercare i registi nelle università, pescando tutti quegli appassionati dotati di competenze e passione. Qualità che lui aveva e mise a frutto, ma al prezzo di dover imparare la dote della perseveranza, la parola su cui insiste di più. In effetti, l’aneddotica è nota e non aggiunge molto a quanto si può già leggere nelle biografie pubblicate anche in Italia (quella, mediocre, di John Baxter del “famigerato” 1999 e l’altra, ottima, di Brian Jay Jones del 2016, da noi per i tipi del Castoro). È importante invece il modo in cui Lucas racconta, e il progressivo scivolamento da quell’incedere incerto con cui attraversa il palco inizialmente, al parlare più concitato di quando affronta i conflitti con i produttori.
Per L’uomo che fuggì dal futuro, non gli pagarono nemmeno il biglietto per andarlo a presentare a Cannes: vi si recò con i suoi mezzi, ma non presenziò alla conferenza stampa perché non sapeva si dovesse fare! Ancor più eclatanti i destini dei film che hanno poi ottenuto successo. Di American Graffiti la Universal gli disse che era terribile e che avrebbe dovuto vergognarsi di mostrarlo in pubblico: le anteprime smentirono clamorosamente questo ottuso giudizio, ma ugualmente il film dovette passare attraverso molteplici ulteriori proiezioni di prova, prima che il muro di gomma della major si infrangesse. Lo fecero poi uscire in Agosto, il periodo peggiore per gli incassi, che superarono comunque i 100 milioni, con gran sollievo del pubblico di Cannes, che esplode in un applauso liberatorio dopo il concitato amarcord. Quanto a Guerre stellari, la Fox voleva soltanto che fosse terminato in tempo e ai primi sforamenti ordinò la chiusura anche se non era completo – e qui Lucas riconosce il merito al grande Alan Ladd Jr., presidente dello Studio che lottò per lui. L’occasione è buona pure per ribadire la liceità delle edizioni riviste dagli anni Novanta in poi, perché “un regista vuole solo completare il suo lavoro”. Un altro caso di perseveranza insomma, che si unisce all’agire lungimirante del pioniere nel tentativo di ottenere più margini d’azione contro l’ignoranza dei meccanismi produttivi. Con la Fox ad esempio infranse il protocollo, stilò lui il contratto con un avvocato, opponendo alle richieste dello Studio la richiesta sui diritti dei seguiti e del licensing. Non per i giocattoli, come si è sempre pensato (“all’epoca non si vendevano giocattoli sui film”), ma “per stampare poster e magliette con cui promuovere il film”. È evidente come ancora oggi questo è l’aspetto che più lo ossessiona, la libertà dei registi ribelli contro l’Impero di un sistema che guarda altrove e che oggi lui può permettersi di continuare a mettere alla berlina, incitando gli altri a fare, con perseveranza e creatività.
In apertura dell’incontro, un breve filmato ha ripercorso una carriera che ha visto Lucas coprire i ruoli del regista, dello sceneggiatore e del produttore, aiutando anche colleghi illustri come Akira Kurosawa, Paul Schrader e Jim Henson a realizzare opere quali Kagemusha, Mishima e Labyrinth. Resta certamente fuori tanto altro, come i folgoranti corti alla scuola di cinema, Look at Life o Herbie e magari anche le collaborazioni con Saul Bass e Verna Fields, che avrebbero potuto arricchire la narrazione. Di sicuro non ci abbandona il dubbio su cos’altro avrebbe potuto fare in un sistema meno sfibrante. Intanto, a 80 anni suonati, lui si dichiara placidamente in pensione, intento a mettere in piedi il suo museo a San Francisco. Chissà se ci esporrà anche la Palma.