Presentato alla Festa del Cinema di Roma, Per te trae ispirazione da un fatto di cronaca del 2021, quando il dodicenne veneziano Mattia Piccoli venne insignito del titolo di Alfiere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella, con la seguente motivazione: “Per l’amore e la dedizione con cui accompagna il padre Paolo, colpito da una precoce forma di Alzheimer”. A partire da questo elemento, poi approndito attraverso la lettura di Un tempo piccolo di Serenella Antoniazzi (libro incentrato su quella sorta di diario emotivo in cui la madre di Mattia, Michela Morutto, ha messo a fuoco la malattia del marito), il regista e sceneggiatore Alessandro Aronadio ha costruito un film che va oltre l’illustrazione di una storia vera, per restituirci invece, nella sua personale rielaborazione, una storia universale. La quale guarda alla perdita della memoria non come (effetto della) malattia, ma piuttosto come occasione per ritrovare l’essenza dei legami familiari. Tanto che la narrazione resta costantemente in equilibrio tra commedia e dramma, dando vita a un racconto intimo, a tratti anche divertente, che si dispiega sul filo della memoria, coinvolgendo il padre Paolo (un Edoardo Leo molto misurato, impegnato pure come coproduttore), il piccolo Mattia (l’esordiente Javier Francesco Leoni, promosso a pieni voti) e la madre (Teresa Saponangelo, che recita per sottrazione) in un delicato gioco di sguardi, di sorrisi, di cenni d’intesa e di gesti quotidiani. Il peso narrativo dell’opera si sposta gradualmente dal genitore al figlio, un passaggio di testimone che, indirettamente, celebra l’amore che resiste al tempo e all’oblio.
Abbiamo incontrato Alessandro Aronadio.

Come si è rapportato alla materia?
Quando mi hanno portato questa idea di storia, in cui c’erano Paolo, Mattia, Michela e anche Andrea, il figlio minore dei Piccoli (che poi non è entrato nella ricostruzione cinematografica, ndr), ho da subito pensato che dovesse avere anche i toni della leggerezza. Proprio per questo si presentava come una sfida bella ma imponente, perché si trattava di trovare un sorriso anche nel momento più tragico. Mi sono preso un tempo lungo per cercare il registro adatto, per poi approdare a quei toni che mi piace più di altri utilizzare. Sapevo comunque benissimo ciò che non volevo, ossia guardare dal buco della serratura il dolore di una famiglia e restituirlo in maniera ricattatoria, se non addirittura morbosa. Non volevo nemmeno fare un film sulla malattia, ma sulla memoria e sui suoi meccanismi tragicomici e imprevedibili, quelli per cui – come capita a me e probabilmente a tanti altri – si dimenticano cose fondamentali e si ricordano dettagli all’apparenza insignificanti. Ed è un film su persone che si prendono cura di altre persone, che nelle difficoltà sanno trovare una risorsa. Anche per questo si intitola Per te, perché parla di connessioni; e questo accade in un’epoca in cui ci hanno fatto credere che siamo interconnessi al massimo grado, e invece non siamo forse mai stati così soli. Ma “per te” implica anche una dedica: a Paolo, che oggi si trova in una condizione difficile, in un istituto, e non ricorda quasi più nulla; a Mattia, che ora ha 16 anni ed ha fatto una cosa enorme.
Ha incontrato i membri della famiglia Piccoli, per scrivere il copione?
No, ho seguito un percorso opposto a quello che in genere si fa quando ci si trova di fronte a una storia che ha un’origine reale e contemporanea. Ho chiesto di non incontrarli, e di scrivere la sceneggiatura a prescindere da loro, per essere totalmente libero di inventarne la storia. Mi sono preso il tempo a cui accennavo, per poter inventare la realtà di questa storia e rispettarne la verità. Una verità profonda, che non riguarda solo la famiglia Piccoli, ma tutti noi.

Una volta conclusa la sceneggiatura, ha però deciso di parlare con Mattia, Michela e Andrea…
Ho voluto che la leggessero, e ho chiesto loro il permesso di utilizzarne i nomi, anche se la storia non corrispondeva alla loro. Hanno accettato, perché hanno capito il significato del “tradimento” rispetto ad essa. Hanno compreso che questa storia non è più solo la loro, ma contiene e mescola tante storie e tante memorie diverse, tra cui sicuramente anche le mie. Successivamente hanno visto soltanto delle clip con alcune sequenze, che abbiamo presentato al Festival di Giffoni. Almeno fino al momento dell’anteprima romana, quando lo hanno finalmente visto per intero.
È per assecondare l’universalità connessa al film, che ha spostato l’azione dalla provincia di Venezia alla periferia di Roma?
Sì e no. A parte Io c’è (farsa che gioca con la metafisica ed è incentrata su un classico eroe-cialtrone da commedia all’italiana, ndr), nei miei film l’ambientazione non è mai troppo caratterizzata, Roma è più che altro un fondale di cui utilizzo scenari poco riconoscibili perfino per i romani. Tanto che gli amici a volte mi chiedono, incuriositi, dove ho girato questa o quella scena. Ad ogni modo, proprio perché avevo in mente una storia universale, l’ambientazione era ininfluente.

Il film si dipana con la prospettiva di Paolo, ma verso la fine diventa decisivo lo sguardo di Mattia. Ha voluto sottolineare un passaggio di testimone anche nella memoria familiare?
Ho immaginato il viaggio di Paolo come un passaggio di consegne. Anche drammaturgicamente la voce di Paolo, che inizia raccontando delle cose, nel finale viene sostituita da quella di Mattia, che parla di ciò che ha imparato durante il viaggio compiuto a fianco del papà.
Mattia è il futuro?
Per forza di cose, questo film non poteva avere un happy ending. Ma c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce: Mattia è l’happy ending del film, lui è il raggio di sole, la luce di questa storia. È il futuro, al pari di tanti bambini e ragazzi che hanno il coraggio di essere più adulti della loro età, con una determinazione incredibile.

Edoardo Leo, parlando del film ha detto di “non aver voluto fare l’imitazione di Paolo, ma un omaggio, una dedica a lui”. Si è approcciato al personaggio seguendo le sue indicazioni, o lo ha lasciato libero di cercare il “suo” Paolo?
È il terzo film in cui dirigo Edoardo (gli altri sono il già citato Io c’è del 2018 ed Era ora del 2022, ndr), e ogni volta mi stupisce. So di proporgli ruoli e storie lontani da quelli che affronta più spesso, tanto che sua madre – quando le ha detto che stava girando un film con me – ha commentato: “…Aronadio, quello che fa film strani…”. Lui sa che con me entrerà in un mondo diverso da quelli che frequenta abitualmente, e finora lo ha fatto con entusiasmo. Mai come in questa occasione, tuttavia, si è avvicinato al ruolo in punta di piedi e, nonostante sia un attore con trent’anni di carriera alla spalle, si è fatto guidare totalmente nella costruzione del personaggio come io l’avevo immaginato, quindi indipendentemente dal Paolo originale, la cui psicologia abbiamo comunque potuto conoscere attraverso quella sorta di diario emotivo che la moglie Michela ha tenuto durante la prima fase della malattia. Ma Paolo non è un personaggio pubblico o comunque noto, per cui lo abbiamo potuto delineare con libertà assoluta. I passaggi della malattia sono fatti di piccolissime cose, di dettagli: il passo che si accorcia, le spalle che si incurvano, lo sguardo che si vela. In tutto ciò, e in molto altro, Edoardo è stato straordinario. E il film è stato un viaggio bellissimo.


