In occasione dell’uscita di La ragazza senza nome (qui trovate la recensione di Grazia Paganelli), Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno presentato il loro decimo lungometraggio al pubblico in due sale di Roma e Milano e incontrato la stampa. Con loro abbiamo parlato di senso di colpa, di etica, di contraddizioni. Ma anche dei sette minuti e mezzo in meno di film rispetto alla versione presentata in concorso all’ultimo Festival di Cannes.
Il senso di colpa è il motore del film: Jenny è ossessionata dalla ragazza a cui non ha aperto la porta, ma si sente anche in colpa verso Julien, il suo stagista, che ha deciso di lasciare gli studi di medicina. E questo la spinge ad agire…
Luc Dardenne (L.D.) Sì, Jenny si sente colpevole e questo fa sì che decida di cercare il nome della ragazza. A torto si sente anche colpevole per la decisione dello stagista di lasciare la medicina. Ad ogni modo questo la spinge ad andare a trovare Julien e a far sì, infine, che lui le dica la verità e lei capisca che non è colpa sua. C’è un po’ d’ironia in tutto ciò: il senso di colpa l’ha occupata a tal punto che si sente responsabile di tutto, addirittura della vita dello stagista. È vero che abbiamo voluto, come dici, che il senso di colpa fosse il motore dell’azione, ma anche che fosse qualcosa di contagioso, che le permettesse di comunicare con le persone che va a trovare e che non vogliono ammettere di conoscere la ragazza senza nome perché ognuno cerca di difendere prima di tutto i propri interessi. Alla fine quello che pensano è se la ragazza morta in riva all’acqua, senza identità, conti davvero e se non sarebbe più comodo dimenticarla. E invece proprio qui sta la questione. Jenny, però, non diventa un giustiziere, non giudica mai, ma il solo fatto che sia là e dica di cercare il nome della ragazza, fa sì che le persone si sentano giudicate. Per questo non hanno voglia di parlare con lei, e lei viene a dire proprio che è il loro silenzio a essere colpevole, non quello che hanno o non hanno fatto, lei non lo sa, ma vuole conoscere dei particolari (ad esempio se la ragazza parlava francese) per risalire al suo nome. Grazie a questa sua ossessione alla fine riesce a ottenere che qualcuno parli.
L’importanza di nominare le cose – e a maggior ragione in questo caso che si tratta di una persona – ha a che fare con l’etica. È un modo per restituire un posto in questo mondo alla ragazza, anche se lei è morta.
Jean-Pierre Dardenne (J-P.D) È proprio questo il motivo per cui Jenny fa quello che fa. In un certo modo non vuole che questa ragazza sparisca una seconda volta, ma che ritorni nella memoria degli esseri viventi, in modo che ci si possa ricordare di lei, che si possa sapere che ha vissuto. È morta, ma aveva una vita.
Jenny è un personaggio abbastanza contradditorio. Dice allo stagista che bisogna mantenere una certa distanza, ma è lei la prima a farsi coinvolgere….
L.D. Con la ragazza senza nome sicuramente cancella la distanza perché è abitata da questa donna morta che è entrata nella sua testa. Si sente coinvolta perché si sente colpevole, responsabile della sua morte, ed è forse anche per questo che non ci siamo interessati alla vita privata di Jenny.
Da questo punto di vista è anche lei un po’ “una ragazza sconosciuta” (cfr. il titolo originale del film Une fille inconnue).
J-P.D. In effetti di lei sappiamo molto poco, solo che l’aspettava una bellissima carriera in un altro posto e che vi rinuncia per cercare di trovare il nome di questa donna senza passaporto. Quindi è qualcuno di brillante che avrebbe potuto fare una bella carriera.
L.D. C’è stato un momento in cui ci siamo detti che avremmo potuto mettere questa sua ossessione in relazione con la sua vita privata, un innamorato, delle cose che avrebbero fatto sì che si sentisse meno colpevole, ma poi ci siamo chiesti: «È questo che vogliamo raccontare? O vogliamo raccontare come scopre la verità? Come fa condividere il suo senso di colpa agli altri?». Però è vero che all’inizio dice di stare nei limiti, di mantenere una certa distanza, di non essere “emotivi”, ma poi lei stessa lo diventa. Ciò che abbiamo cercato di mostrare, senza mai dirlo esplicitamente, è che alla fine, forse, scopre quello che voleva davvero, ovvero essere questo medico di periferia tra le persone escluse dalla società, quelle che non possono pagare l’ospedale come le persone che vivono in centro. Diciamo che trova la sua vocazione.
A questo proposito il medico assume un po’ il ruolo del confessore…
L.D. Diciamo che è una specie di santa laica. Le persone la amano, i pazienti le danno da mangiare, parlano con lei, hanno fiducia in lei. È per questo che abbiamo scelto Adèle Haenel per il ruolo: la sua giovinezza, la sua innocenza, il suo sguardo molto limpido sono molto appropriati. Abbiamo pensato – e questo ci ha permesso di finire la sceneggiatura – che Adèle avrebbe potuto portarci verso il fatto che le persone riescano a parlare, a dimenticare i loro interessi per ritrovare la ragazza senza nome.
Rispetto alla versione presentata al Festival di Cannes avete tagliato sette minuti. Dove siete intervenuti?
J-P.D. Per la precisione ci sono 7 minuti e mezzo in meno, 32 tagli. Non volevamo che Jenny diventasse un poliziotto, volevamo restasse un medico e che se procedeva nella sua inchiesta fosse grazie alla medicina, ma che accanto a questo continuasse a curare le persone che non erano necessariamente collegate alla sua inchiesta. Quindi la difficoltà su cui ci siamo interrogati fin dall’inizio del nostro lavoro era come trovare un buon equilibrio tra la sua ossessione per la ragazza senza nome e il suo lavoro di medico. La versione che è stata presentata a Cannes era visibilmente – ce lo siamo detti dopo – troppo prigioniera della cronologia. L’accoglienza al Festival è stata tiepida e alcuni amici critici e persone che hanno visto il film ci hanno detto che mancava di ritmo, era troppo legato alla cronologia. Abbiamo capito che forse era così e al ritorno da Cannes siamo tornati in sala di montaggio, già c’era una sequenza che avremmo voluto tagliare di cui non eravamo sicuri nemmeno prima. Così, senza averlo deciso, abbiamo rivisto il film e in 7-8 ore abbiamo fatto dei tagli, senza cambiare l’ordine né le inquadrature, e ci siamo ritrovati con 7 minuti e mezzo in meno. Abbiamo persino fatto dei tagli in più che poi abbiamo reintrodotto perché era troppo. Ci sembra che in questa versione siamo più nella testa del nostro medico, visto che il ritmo, il movimento del film è dato dall’ossessione che Jenny ha per questa ragazza e le altre cose rientrano in questa ossessione. Può sembrare strano essere dovuti passare per Cannes per renderci conto di questo, ma è così. E oggi – magari tra sei mesi ne avremo un’altra – la nostra spiegazione è che normalmente, quando abbiamo finito le riprese, aspettiamo due settimane prima di entrare in sala di montaggio. Invece questa volta abbiamo finito di girare e due giorni dopo eravamo al montaggio. Forse non avremmo dovuto perché, in effetti, siamo rimasti un po’ prigionieri delle riprese, dei nostri piani sequenza che possono abbastanza in fretta ipnotizzare e far sì che non si abbia più la distanza, come dice Jenny. Insomma, anche noi non avevamo la giusta distanza e facevamo un po’ fatica a tagliare.