Il re del Belgio Nicolas III (Peter Van den Begin), in visita di Stato a Istanbul, si trova improvvisamente al centro di una grave crisi: durante la sua assenza la Vallonia ha dichiarato l’indipendenza e lui non può tornare in patria per una tempesta solare che impedisce agli aerei di volare. Con lui viaggiano Ludovic Moreau (Bruno Georgis), Maestro del protocollo del Palazzo reale, Louise Vancraeyenest (Lucie Debay), responsabile dell’immagine pubblica del re e dei rapporti con la stampa, Carlos (Titus De Voogdt), valletto personale di Sua Maestà, oltre che un regista inglese, Duncan Lloyd (Pieter van der Houwen), incaricato dalla regina e dal Palazzo di girare un documentario per rendere la figura del re più vicina ai sudditi. Sarà proprio il regista ad avere l’idea per superare l’impasse che porterà lo scombinato drappello in Ungheria, Serbia per giungere poi in Albania. Un curioso mockumentary che si trasforma in road movie per raccontare una trasformazione e che diverte toccando temi molto complessi e in cui la questione linguistica è di fondamentale importanza. All’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove è stato presentato nella sezione Orizzonti, Kings of the Belgians ha messo d’accordo critica e pubblico. Abbiamo incontrato Jessica Woodworth che con Peter Brosens ha scritto e diretto il film. Si tratta del loro quarto lungometraggio, dopo Khadak (2006), Altiplano (2009) e La quinta stagione (2012) in cui decisamente cambiano registro.
Nel film affrontate temi molto alti (le divisioni dei belgi, la situazione in Turchia, i Balcani…) con il sorriso e un tono scanzonato. Da dove siete partiti?
Abbiamo cominciato a scrivere Un re allo sbando nel 2010-11 durante la crisi politica in Belgio quando non abbiamo avuto un governo per 589 giorni. Una situazione inconcepibile. Il punto di partenza era quindi la volontà di integrare questa assurdità in una storia, con al centro il personaggio del re come figura mitica: un re nasce in una situazione di debolezza, in quanto è senza libertà e questo è sempre interessante. Dici la parola re e c’è subito una storia, quindi siamo partiti dalla periferia dell’Europa, in una città simbolicamente molto potente come Istanbul, per dar vita poi a un’Odissea attraverso i Balcani.
Tutto quello che c’è nel film si basa su situazioni realistiche, a partire dalla tempesta solare.
Sì, tutto è plausibile nella nostra storia. Fin dall’inizio, ci siamo dati una regola ovvero che tutto doveva essere credibile, anche nella recitazione degli attori. Il primo giorno di riprese ho detto loro: “Non siete in una commedia”. Siamo partiti da fatti reali: nel 2010 con l’eruzione del vulcano islandese che bloccò i voli in Europa per molti giorni il presidente dell’Estonia rimase davvero bloccato a Istanbul e dovette lasciare la Turchia a bordo di un minibus con la sua équipe. C’era un aspetto di fascino e di nostalgia in questa necessità di fare un viaggio non in aereo come siamo abituati, ma quando il tempo e lo spazio è vissuto in una maniera diversa.
Parte come una tragedia (il re senza il regno) e si trasforma in road movie…
Questo succede perché la vita è imprevedibile, come il film. Di road movie classici ce ne sono tanti, ma volevamo conservare una certa libertà facendo il film, tenendo conto delle improvvisazioni, provocando delle situazioni… Prima dell’inizio delle riprese c’è stato un periodo di sviluppo dei personaggi. Ho fatto mesi di prove con gli attori, preparando l’essenziale, soprattutto perché il protocollo è un personaggio invisibile che definisce tutto. Per Un re allo sbando non abbiamo fatto, come per gli altri nostri film, delle ricerche quasi antropologiche, siamo rimasti un po’ nell’immaginario, ma il protocollo andava reso in maniera plausibile. Tutto è basato sul personaggio del re, la chiave è proprio la trasformazione interiore del personaggio.
È un film molto politico…
Sì, soprattutto con la Brexit, il colpo di stato in Turchia, i profughi… c’è un’esplosione di riferimenti e sta allo spettatore trovare simboli, metafore, allegorie… Il potenziale è enorme.
Il re diventa re quando di fatto non lo è più, in cui trova il contatto con il popolo…
Finalmente, direi. In Belgio il titolo dell’attuale re così come di tutti quelli che lo hanno preceduto è “re dei Belgi” quindi è il re del popolo, ma re Nicolas III di fatto non ha contatto con la gente perché quando arriva la notizia che la Vallonia vuole l’indipendenza per lui è una sorpresa, non ne comprende le motivazioni e lo spettatore capisce immediatamente che lui brancola nel buio, non ha la parola, non mangia quello che vuole mangiare, né fa quello che vorrebbe, di fatto è un burattino nelle mani anche della moglie, una regina terribile che vuol far realizzare un documentario per dare un’immagine tutta sorrisi, ma che non è quella corrispondente alla realtà. Nell’anonimato il re è finalmente libero e quando dice qualcosa gli altri lo devono assecondare perché è pur sempre il re.
Si sente rinato quando si trova sulla barca in mezzo al mare, lì capisce di aver trovato se stesso e le parole che gli mancavano. Un’immagine forte di questi tempi.
Certo, era molto importante. Per me è una scena chiave del film, c’è la rinascita di un uomo e il fatto che sono perduti in mare, e quindi sono molto vulnerabili, li rende umani, uniti nella loro vulnerabilità e sotto ci sono le aurore boreali e Vivaldi. Tutti questi elementi fanno sì che si percepisca che la natura è molto più importante, l’essere umano è piccolissimo e siamo tutti in una stessa barca. Uniti e perduti, per me è piuttosto questo il senso, quando vediamo la forza e la meraviglia della natura, questo è più importante di tutto. È una scena che grida metafora, perché la paura che la gente ha farà crollare il progetto europeo. È qualcosa che non ha senso, è completamente stupido, il vero pericolo sta dentro di noi, è la paura dell’altro a distruggere il sogno di un’Europa unita.