

Da lì si passa alle esperienze internazionali con Ron Howard (Rush, Angeli e demoni), Spike Lee (Miracolo a Sant’Anna) e Shawn Levy (Una notte al museo), non cercate con l’ambizione del traguardo estero: “L’inglese lo parlavo perché mi piace viaggiare e così ho imparato le lingue, ho fatto l’attore proprio perché mi consentiva di continuare a visitare il mondo”. Sebbene tenda a rimarcare il piacere del “gioco” nel giro grosso, Favino è comunque lucido nell’approdo: “Ho smesso di interpretare quei ruoli, un po’ perché stavano iniziando a offrirmi il solito stereotipo del gangster, ma anche perché ho capito dove stava andando il cinema americano e con lui anche quella società”.
Si torna così agli autori e i ruoli nostrani, a Gabriele Muccino (“gli devo tanto”) e al celebrato Il traditore, per cui ha dovuto faticare parecchio per convincere Marco Bellocchio. Lavorare su Buscetta è stata una grande lezione di metodo e vita perché “documentandomi capivo che potevo conoscere solo quello che lui voleva che si sapesse di sé stesso e così per il ruolo ho dovuto rischiare”. In questo modo ha capito che “mi interessano i comportamenti degli uomini e il modo in cui cercano di farsi percepire”. Inevitabile il paragone con l’ancor più ingombrante figura di Bettino Craxi in Hammamet di Gianni Amelio: “La cosa più difficile è stato restituire la misura della sua leadership. La vicenda invece è di taglio shakespeariano, è Re Lear, l’uomo di potere che perde tutto”. Di qui la già citata puntualizzazione sul trasformismo che si allarga a una visione completa dell’arte: “La nostra storia, che viene dalla Grecia e dal mondo arabo, ha sempre privilegiato la maschera all’immedesimazione. Le nostre radici sono il coraggio di indossare quella maschera e esprimersi attraverso essa, senza i tormenti psicanalitici del metodo – oggi considerato più valido, ma solo per congiuntura storica. La maschera è il simbolo più alto della nostra umanità e questo approccio ha fatto scuola: cos’è Parasite se non una commedia alla Monicelli?”.

Il viaggio continua attraverso Mario Martone (“Nostalgia ha causato in me un’adesione viscerale per il tema del ritorno e delle radici”), Andrea di Stefano (“L’ultima notte di Amore è il tipo di sceneggiatura che vorrei leggere più spesso in Italia, ambiziosa ma popolare nel senso più alto del termine”), fino al caso controverso di Comandante, di Edoardo De Angelis. Un film “fisicamente molto duro, un racconto di una umanità che disobbedisce, cambia idea e permette di nutrire il dubbio che è l’aspetto più interessante per me: ragionare sull’impatto di ciò che ci circonda e elaborarlo per una memoria condivisa”. Chiara in questo senso anche la sua posizione, visti i dubbi etici sollevati dal film: “Il mio lavoro è mettere da parte la mia etica per capire con chi mi sto confrontando, spesso anche persone molto distanti da me e dalle mie idee. Ringrazio questo aspetto del mio mestiere perché mi fa relativizzare le mie certezze. Se fossimo tutti attori con questo approccio, forse vivremmo in un mondo migliore”.
ShorTS International Film Fesival: Favino Premio Interprete del Presente


