Quando vinceva il mostro: un ricordo di Roger Corman

“Dovevamo andare a giocare a tennis, ma pioveva”. La frase pronunciata da Roger Corman al termine dei due soli giorni di riprese de La piccola bottega degli orrori, sottolinea ancora oggi molto bene la sua capacità non compromissoria rispetto agli imprevisti e l’abilità sopraffina di cogliere ogni opportunità pur di portare a casa il risultato (oltre a una robusta dose di ironia con cui affrontare la vita). Una lezione messa a frutto in una filmografia i cui numeri hanno dell’incredibile: 50 film realizzati in poco più di tre lustri, dal 1955 al 1971 (più l’isolato ritorno nel 1990 con Frankenstein oltre le frontiere del tempo), con una media di almeno tre titoli l’anno e una punta di otto nel 1957, cui andrebbero naturalmente aggiunte le regie non accreditate, i titoli prodotti e quelli “riveduti e corretti” al montaggio per la distribuzione americana. Nella sua celebre autobiografia (che porta a cento i film realizzati a Hollywood “senza perdere un dollaro”) la lavorazione di questi titoli porta in dote una voglia di fare accompagnata da un imperturbabile pragmatismo all’americana. Corman racconta una stagione precisa del cinema americano, quando l’apertura del mercato agli indipendenti dopo la promulgazione del Paramount Decree (che aveva infranto il monopolio in mano alle major) lo vide protagonista instancabile. Suo merito fu sempre quello di capire i funzionamenti del meccanismo produttivo, anche e soprattutto nel sottobosco più spietato delle realizzazioni a bassissimo costo, dove le decisioni devono essere rapide e i risultati capaci di massimizzare il risultato minimizzando i rischi.

 

 
In effetti, stante il divertimento nel leggere queste avventure, colpisce proprio il suo approccio totale alla macchina-cinema: Corman gira, qualche volta recita, di sicuro ha un occhio sempre molto attento alle circostanze e ai mezzi a disposizione, ma è pure consapevole di come il suo stile progressivamente si affina, è un lucido critico di sé stesso, lavora per realizzare ma anche per imparare e portare a casa un bagaglio di conoscenze che gli permetteranno poi sfide più autoriali. Dal flop di un film impegnato come L’odio esplode a Dallas (comunque poi mitigato dalle uscite home video qualche decennio dopo) capisce che la confezione deve essere innanzitutto attrattiva e in grado di catturare l’attenzione di un pubblico in cerca di disimpegno, cui magari poi far passare i messaggi più interessanti giocando con le metafore. Da questo punto di vista, il suo capolavoro è La creatura del mare fantasma, B-movie scritto in sei giorni nel 1961 dal fidato sceneggiatore Charles B. Griffith e realizzato per capitalizzare sui mezzi rimasti a disposizione dopo aver girato L’ultima donna sulla Terra a Porto Rico. Dal momento che il posto offriva ottimi sgravi fiscali, perché non approfittarne per mettere in piedi velocemente un secondo titolo? Detto fatto: c’è una banda di criminali che vuole tenere per sé l’oro rubato a Cuba per conto di alcuni militari americani e si inventa perciò un fantomatico mostro marino che infesta le acque della zona. Purtroppo per loro il mostro esiste veramente, si pappa tutto il gruppo e nella scena finale lo vediamo trionfante stuzzicarsi i denti ormai satollo, seduto sulla cassetta con il tesoro. Come ebbe a dire lo stesso Corman “questa volta vince il mostro”, un ulteriore segno di ironia che, però, rivela una vena satirica non comune e uno sguardo cinicamente divertito rispetto all’umana avidità, ancor più sorprendente se inquadrato nell’alveo delle tensioni geopolitiche con l’isola castrista che il film adombra e che non ti aspetteresti dati i presupposti e la fattura estremamente avventurosa del risultato.

 

 
Il film è oggi nobilitato dall’essere inquadrato in un filone horror-ironico che proprio Corman sublimò con titoli come Il vampiro del pianeta rosso e, soprattutto, il già citato La piccola bottega degli orrori, assorto ormai agli annali del culto, con tanto di musical e relativa nuova trasposizione derivati. I tempi erano maturi per qualcosa di più e quindi, accanto a simili lavori più spregiudicati nelle lavorazioni, sono arrivati i titoli produttivamente più solidi, come Il massacro del giorno di San Valentino (per la 20th Century Fox) e il celeberrimo ciclo tratto dai racconti di Edgar Allan Poe, nove titoli realizzati in cinque anni con l’ausilio di una factory consolidata: la produzione della AIP di James H. Nicholson e Samuel Z. Arkoff, la scrittura intelligente di Richard Matheson e Charles Beaumont e un cast che vede in testa un interprete di razza come Vincent Price – colto quel tanto che basta per giostrarsi a meraviglia fra il registro horror e l’ironia che diventa più esplicita nei “capitoli” centrali del mucchio. La maschera della morte rossa è il titolo in cui la vena autoriale di Corman esplode più caustica e visionaria, complice anche la fotografia di Nicolas Roeg, ancora una volta per mettere alla berlina l’avidità degli ultimi uomini in un mondo devastato dalla peste. Quasi una dichiarazione d’intenti per un uomo che aveva fatto del risparmio delle risorse non solo un mezzo per contenere il rischio al botteghino, ma anche un fine per esprimere una filosofia di vita capace di apprezzare quanto a disposizione senza sprecare nulla più del necessario.

 

Il clan dei Barker

 
In questo modo, la torsione che il cinema cormaniano compie alla fine degli anni Sessanta è quella che porta una produzione nominalmente di riporto rispetto alle tendenze in atto a diventare invece anticipatrice di mode e filoni: I selvaggi è una prefigurazione di Easy Rider e dei vari biker movie che imperverseranno negli anni Settanta dall’America all’Australia, Il serpente di fuoco è un potente esempio di cinema lisergico e psichedelico, Il clan dei Barker è il punto di intersezione fra Ganster story e il successivo Boxcar Bertha di Martin Scorsese. Il che naturalmente apre il percorso del Corman talent scout, capace di tenere a battesimo quasi tutta la generazione della New Hollywood, da Francis Ford Coppola a Peter Bogdanovich, da Jonathan Demme a Joe Dante e Monte Hellman, fino a James Cameron. Il suo lascito dona a un parterre di nomi irripetibili una lezione che eleva la sua statura a figura cardinale per comprendere le trasformazioni in atto all’ombra delle major e che avrebbero traghettato Hollywood verso la (post)modernità. Ai suoi pupilli Corman offriva un’occasione, le stesse condizioni capestro su cui si era formato anche lui e un monito: fai bene questo film e non dovrai più lavorare per me. Una sintesi perfetta di una concezione da sempre mirata a unire il risultato alla crescita autoriale.