Della sua Bond Girl Miranda Frost (in La morte può attendere) ti dice che ricorda “esclusivamente la coltellata che Halle Berry mi diede nel petto”. Delle bionde hitchockiane a cui è stata spesso avvicinata, ti rivela “che alla fine, con loro, ho un rapporto ambiguo: da una parte non amo essere catalogata, cosa che il cinema europeo – inglese, soprattutto – tende a fare. Dall’altra le trovo un simbolo di femminilità affascinante, per via del mistero che le circonda”. Di David Fincher dice che “è, molto semplicemente, un regista, un artista, uno psicologo”. Rosamund Pike è l’ultima della donne fincheriane. In L’amore bugiardo. Gone Girl è Amy Dunne, The Amazing Amy, l’American East Coast Girl perfetta, figlia amatissima di una coppia che l’ha trasformata dalla nascita nella protagonista di una saga best-seller, cover wife di un giornalista scrittore di magazine upper (Ben Affleck) che, quando la moglie scompare, viene accusato di averla uccisa e nascosto il cadavere. Perché nel mezzo c’è stata la crisi del 2008, entrambi hanno perso il lavoro e da Manhattan sono tornati nella America di lui, quella più profonda. Così scrisse nel best-seller omonimo Gillian Flynn, giornalista licenziata e sposata che ha firmato anche la sceneggiatura. Ma Rosamund Pike, l’ha scelta David Fincher in persona. Se le chiedi perché, se ha mai chiesto al regista il motivo per cui ha voluto lei invece di Reese Witherspoon e Charlize Theron, Natalie Portman e Olivia Wilde, tutte molto più american girl di lei (Theron non per nascita, ma per anzianità di residenza sì), ti dice che non ci ha pensato proprio, a domandarglielo. Rosamund Pike, da brava inglese, ha la disciplina nel Dna: le interviste gliele fissano alle 9 del mattino e lei esegue, sfoderando subito il suo accento che è una nota caratteriale, ancora prima che vocale. Te la immagini sul set, a fare tutto quello che Fincher le chiedeva: soldato Rosamund agli ordini. O qualcosa di molto simile.
La “sua” Amy era già tutta scritta, nel libro e nello script, o è nata dalla collaborazione tra lei, Fincher e l’autrice?
Entrambe le cose. Quando ho letto la sceneggiatura mi è venuto spontaneo chiedere a Gillian più informazioni: non per ispirarmi, ma per creare un link tra me e lei. Se Amy faceva certe cose era perché l’autrice le aveva scritte: dovevo capire i motivi di Gillian, prima di quelli di Amy. Ho chiesto più che altro che musica ascoltava mentre lavorava, che libri aveva letto. Dentro di me diventavano le canzoni e le parole della “mia” Amy. E dovevano entrare dentro di me: alcune canzoni di Fiona Apple, Preghiere esaudite di Truman Capote, in particolare. E tanti magazine, dal New Yorker a Town & Country.
E Fincher che consigli le ha dato?
La sua idea – per me davvero geniale – è stata quella di farmi prendere lezioni di boxe da Holly Lawson, che è la n 5 dei pesi leggeri. Non tanto per prepararmi fisicamente al ruolo, quanto per darmi la chiave psicologica: dare e prendere colpi, schivare e attaccare. Sul ring e nella vita… Nello stesso tempo, parlando, a entrambi è subito venuta in mente Carolyn Bessette-Kennedy, la moglie di John: Amy doveva avere il suo background, il suo aplomb, il suo sguardo sul mondo. Parlo proprio di posizione degli occhi: la relazione tra Amy e Nick, doveva avere lo stesso glamour e la stessa “bellezza lontana” di quella tra Carolyne e John. Anche se questa non è la loro storia, e del resto di lei resta davvero poco: non ci sono interviste, su youtube non ci sono video in cui lei parla. Era un’immagine, una bionda sofisticata accanto al principe ereditario della monarchia statunitense, sempre un passo indietro: poi si è saputo che, forse, lei non era così reverente… Ho lavorato solo sulle sue fotografie, cercando di scoprire cosa ci fosse sotto la sua pelle.
E da inglese si è trasformata in american girl…
Le due grandi sfide per cui ho accettato il film sono state prendere/perdere/riprendere 6 chili in 9 giorni e farlo 3 volte nel corso della lavorazione, e diventare americana. Perché non è solo questione di accento, ma proprio di attitude: ho studiato per trasformarmi in una giovane donna dell’altra parte del mondo e della storia. Da Oxford, dove ho studiato, a Manhattan… Sul set ho avuto due coach: Holly Lawson e Carla Meyer che mi ha insegnato ad americanizzarmi. È la stessa che ha affiancato Cate Blanchett sul set di Blue Jasmine. Lei mi ha insegnato pensare, muovermi, guardare come una della East Coast: io di mio ci ho messo le nuotate in piscina, il surf, il ping pong, lo skateboard e tutto quello che mi poteva distrarre da me stessa, liberarmi dal controllo e da Rosamund, per diventare Amy Dunne. Mi hanno aiutata anche film come Da morire e Basic Instinct.
Altri modelli cinematografici?
Faye Dunaway in Quinto potere: il modo in cui lei tratta i maschi, come si muove tra di loro. Mi ha ispirata molto. E anche Helena Bonham Carter in Le ali dell’amore. Poi ho letto molti libri di psicologia e medicina. E mi sono impegnata sulla scrittura di Amy. Nel libro infatti i capitoli di lei consistono per la maggior parte nei suoi diari. Cosa che ovviamente nel film non potevamo rendere. Però ho consultato un esperto di grafia e per tutta la preparazione e poi sul set ho scritto moltissimo, con lo stile di Amy: a mano, non diari ma fogli, note. La mia grafia cambiava in parallelo all’evolversi della personalità di Amy: ovviamente seguivo gli step che l’esperto mi suggeriva e altre nozioni che ho scoperto su Internet. Per esempio il suo narcisismo mi ha portato a lavorare moltissimo sulla A, la sua iniziale: quando l’ho mandata per controllo al grafologo, mi ha detto che era perfetta per una persona come Amy.
Fincher dice che questo non è un film sull’amore, ma sulla morte: è d’accordo?
Direi che è un film sulla morte dell’amore. E non tanto per la crisi economica, quanto per il fatto che contano più le aspettative degli altri e della società, che i bisogni della coppia. Al di là della deriva “malata” di questa storia, il discorso centrale per me resta il fatto che Amy & Nick non sono se stessi, ma cercano di corrispondere a quello che gli altri chiedono loro di essere. E questo è un discorso molto contemporaneo e realistico: se la crisi economica è più forte dell’amore, è secondario.
Ma davvero non ha mai sentito il bisogno di chiedere a David Fincher il perché della sua scelta?
Giuro. So benissimo di essere stata la vera sorpresa del casting di questo film, sia per la mia nazionalità, che per il mio curriculum e per l’immagine che ho: spero solo che alla fine David sia rimasto soddisfatto. Se dovessi dare la mia spiegazione? Forse perché anch’io sono figlia unica, come Amy…
Veronica Garbagna