Samuel Shepard Rogers era figlio di un ufficiale dell’esercito alcolista e manesco. Ha trascorso i primi 18 anni della sua vita a girovagare fra le basi militari dell’America più profonda. Di solito non c’era niente, un paesino o una cittadina, la base e il nulla intorno. Per Shepard si è trattato di una formidabile palestra, dove nutrire il suo sguardo (sui paesaggi, sui caratteri), l’ideale per comprendere/assorbire il linguaggio di tutti i giorni, la vita della provincia, per poi rielaborare il tutto fino a farlo divenire archetipo (soprattutto nelle sue opere teatrali). Non ancora ventenne si trasferì New York con una sola idea in testa: scrivere per il teatro, per il cinema. Alcuni anni fa in un incontro durante il Festival di Toronto puntualizzava:” “Non voglio farmi portavoce di un’opinione. Voglio invece che siano le mie commedie, le mie sceneggiature a dire la loro. Quasi autonomamente…” Meravigliosamente attraversato dal “sentire” rock (Shepard è stato il batterista degli strepitosi Holy Modal Rounders), Sam ha portato sul palco con Patti Smith una versione amplificata della loro stessa storia d’amore con Cowboy Mouth. Ma fuggì subito perché: “la cosa comportava un eccessivo coinvolgimento emotivo”, affermò all’epoca Shepard. “Di colpo mi sono reso conto che non volevo espormi a quel modo, mettendo in scena la mia vita. Era come stare in un acquario”. Quando vinse il Pulitzer il New York Times scrisse:” Shepard scava negli strati della nostra storia per giungere alle radici del mito americano… Le parole di Shepard hanno un’integrità granitica, rocciosa”. Un gigante. Come definire altrimenti chi scrive la sceneggiatura di Zabriskie Point a 27 anni; recita per Malick in I giorni del cielo, adatta uno dei suoi capolavori (Motel Chronicles) per il Wenders di Paris, Texas? Qui sotto dei passi tratti da una celebre intervista al Village Voice.
Odiare i finali
Gli inizi sono di sicuro la cosa più appassionante, la metà mi lascia perplesso e i finali sono un disastro. La tentazione di trovare una risoluzione per tutto, impacchettare la pièce per bene, mi è sempre sembrata una trappola terribile. Perché non essere più onesti? I finali più autentici sono quelli che vanno verso un altro inizio.
Il patriottismo
Ci stanno vendendo un’idea tutta nuova di patriottismo. Non avrei mai pensato che il patriottismo dovesse essere ostentato. Il patriottismo è qualcosa che ciascuno di noi sentiva dentro di sé. Non c’era bisogno di appuntarselo sulla giacca, di metterlo in vetrina, o di attaccarlo al paraurti come un adesivo. In questo genere di patriottismo non mi riconosco affatto.
La democrazia
È chiaro che c’è una netta divisione delle parti. Perciò, se ti trovi dall’altra parte della staccionata diventi automaticamente anti-americano. E questo genera la paura di trovarsi dalla parte sbagliata. La democrazia è una creatura molto fragile. Bisogna prendersene cura. Nel momento in cui non ci si sente più responsabili verso di essa e si permette che la si trasformi in tattica dell’intimidazione non si può più parlare di democrazia, giusto? Diventa un’altra cosa. A un passo, quasi, dal totalitarismo.
Recitare
Quando si recita in un film il trucco è che in realtà lo si fa solo per brevi istanti, una ripresa non dura quasi mai più di venti secondi. Recitando a teatro invece ti fai onore davvero. Ho sentito il bisogno di farlo per me stesso. Mi sarebbe spiaciuto dover ammettere, una volta arrivato a fine carriera, di non aver mai recitato su un palcoscenico. Del teatro mi spaventa doversi confrontare con il pubblico. Il fatto di essere osservato così da vicino. Come attore propende verso il minimalismo. Non c’è bisogno di fare i salti mortali. Basta fare le cose nel modo più semplice possibile, mettendoci tutta la verità che si riesce a trovare.