Candido gettato sulla gleba come un servo, mentre il mondo gira fuori dal tempo, come se la storia fosse trascorsa invano. Lazzaro felice è un ritornante mai dipartito, il corpo celeste caduto sulla terra che non appartiene né al passato né al presente, figuriamoci al futuro… L’affabulazione astratta di Alice Rohrwacher ha finalmente trovato la quadra di una visione poetica della realtà che svapora di svariati aromi, in acrobazia su zavattinismi desichiani e pasolinismi cittiani avendo come rete di sicurezza le rime bertolucciane (Giuseppe, ovviamente, e sullo sfondo il novecentesco Bernardo…): al suo terzo film, la regista finalmente schiarisce la mente e la lascia libera d’immaginare al di fuori dal tempo reale, sfalsando le coordinate del realismo tanto quanto quelle della magia poetica. Lazzaro felice è felice perché non capisce. Ed è Lazzaro perché è la seconda occasione di gioia offerta ai compagni di vita, quando si risveglia nel loro (e nel nostro) desaturato presente: la parabola inventata su di lui da Alice Rohrwacher è quella di un mondo chiuso in se stesso che perde la felicità perché trova il sapere. Pare quasi che fosse meglio quando erano all’oscuro del tempo, quando vivevano come servi della gleba della marchesa (quella “vipera” di Nicoletta Braschi), che li teneva isolati in un mondo incantato e maledetto, fatto di lavoro della terra e poco pane.
Lazzaro viveva con loro, sfruttato dai suoi simili nella sua bontà immacolata. L’arrivo della malizia in forma di coscienza incarnata nel giovane marchesino Tancredi, scatena il finimondo della rivolta: si nasconde nella grotta di Lazzaro, il giovin signore, e finge di esser stato rapito. Arrivano dunque i carabinieri e con loro arriva il presente, il mondo contemporaneo della società… Lazaro cade sulla terra, in fondo a un dirupo, e tornerà anni dopo, quando risorgerà, per improprio miracolo, a nuova vita e li raggiungerà nel nuovo mondo, in cui sono stati liberati. Qui è tutto algido, freddo: al posto dell’Inviolata, la tenuta marchesale semidiroccata in cui hanno vissuto per anni, c’è ora per loro una periferia della città fatta di case abbandonate, in cui sopravvivono nella lieve miseria. Lazzaro, come fosse il Totò di Miracolo a Milano, porta la sua fronte spaziosa in questa comunità guidata da un capofamiglia che ha la bonaria e rude presenza di Sergi Lopez, capofamiglia di una comunità di ladruncoli di cui fa parte anche Antonia (Alba Rohrwacher), l’unica che anni addietro, nell’Inviolata, lo aveva a cuore e che lo accoglie anche qui. Tancredi, ormai cresciuto nel corpo di Tommaso Ragno, è un poveraccio più povero di loro, che tira la giornata. E il doppio corpo del film è tutto in questo scarto nella tristezza quieta di un presente che vanifica le speranze di vita migliore, il segno di una società di diritto in cui essere uomini migliori. E’ proprio il progresso il grande tradimento raccontato nel corpo resuscitante di Lazzaro, la bontà infinita di un mondo giusto e bello e buono che si rivela inadatto alla presenza di questo vergine privo di malizia. Lazzaro felice trova in questo scarto la sua poesia fuori sincrono, funzionando proprio sul passaggio tra il registro della fiaba grottesca e quello del realismo disincantato: niente di magico, in questo film che racconta il miracolo di una rinascita impossibile e di due morti irreali. L’equilibrio stilistico è tenuto con semplicità, quasi gesto naturale di un film incosciente e per nulla smaliziato. Alice Rohrwacher si assume tutti i rischi dell’ingenuità e vince la scommessa giocata sull’azzardo della poesia.