Che siano cattivi non c’è dubbio, impegnati come sono a farsi le scarpe a vicenda in un continuo gioco di apparenze e inganni. La bruttezza principale è così quella interiore, ma trovandoci poi nel territorio della commedia grottesca, le rappresentazioni esteriori si esasperano, e giocano la carta del politicamente scorretto. Protagonisti sono infatti dei personaggi affetti da varie disabilità: lui, il Papero, non ha le gambe; lei, la Ballerina, non ha le braccia; gli altri, il Merda e Plissé sono rispettivamente un tossico e un nano. Ma tutti sono accomunati dalla voglia di fuggire a Cartagena con i soldi della mafia cinese che sanno essere depositati in una banca, non prima ovviamente di aver eliminato gli amici/complici/rivali. La costruzione diventa così quella dell’heist movie, ma la struttura gialla con continui colpi di scena poggia su una rappresentazione che capovolge di continuo le apparenze: ecco dunque i disabili che invece di suscitare una pelosa pietà sfruttano la solidarietà altrui per perpetuare i crimini; poi la Chiesa che celebra la festività di Halloween sentendola come propria – e le maschere, dal canto loro, favoriscono nuovi giochi di sovrapposizione fra apparenza, rappresentazione e illusione. Il mondo in cui si ambienta l’avventura, dopotutto, è grottesco e a tinte forti, riflette i tic del nostro, ma è chiaramente un universo altro dove esibire con orgoglio lo sberleffo delle autorità e dei valori tradizionali (scelta che in parte ricontestualizza e riassesta la spietata presa in giro delle disabilità). La narrazione fa il resto, attraverso torsioni che fanno procedere il racconto avanti e indietro nel tempo, cercando un ritmo forsennato che giustifichi la forte caratterizzazione di genere.
Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Smetto quando voglio, si continua insomma a portare avanti la bandiera del nuovo cinema italiano pop: non a caso anche qui c’è Claudio Santamaria – e la scena in cui lo vediamo “emergere” dal cassonetto rievoca quella di Enzo Ceccotti che si arrampica dalla banchina sul lungotevere – e una formula che cerca di unire alla commedia l’azione, in un bombardamento sensoriale che riempia l’occhio oltre che la sceneggiatura, come già nella saga di Sibilia. A colpire è soprattutto la dedizione generosa con cui gli attori si sono offerti ai ruoli, attraverso trasformazioni fisiche anche radicali – qualcuno ricorderà la pelata simpaticamente esibita da Santamaria sotto il cappello, durante la cerimonia dei David di Donatello, qui se ne capisce il motivo. Nella sua foga bulimica di ritmi e situazioni, però, il film di Cosimo Gomez recupera alcuni stilemi già consolidati che finiscono per rendere l’operazione più derivativa che originale: l’uso espressivo della voce fuori campo, certi effetti di transizione un po’ troppo facili, e una simpatia forzata rendono così la formula più meccanica che autentica, e inficiano la qualità principale di un filone che ha avuto il merito di tracciare una deriva importante: quella di riformulare stilemi e tematiche in una chiave originale e con una convinzione estrema nei propri universi, tale da generare autentiche mitologie contemporanee. Al contrario, in questo caso la rottura delle ipocrisie legate al politicamente corretto sembra la principale preoccupazione di un progetto che non riesce ad andare al di là del grottesco più semplice, e a rendere queste figure in qualche modo più profonde, pur nella loro natura da cartoon. La torsione finale è dunque quella che ridimensiona l’impatto altrimenti coinvolgente dell’operazione. Il cinema pop contemporaneo ha ancora bisogno di crescere, al di là dei pochi prototipi riusciti e delle operazioni volenterose.