This is not Horror! This is not Science Fiction! This is not Comedy! Era decisamente molto chiaro il trailer di Save the Green Planet!, di Jang Joon-Hwan nel riassumere l’imprendibilità del film, il suo voler mettere insieme idee e suggestioni senza ricadere al contempo nella trappola delle prevedibili classificazioni. Seguendo la stessa traccia, si potrebbe dunque affermare che Bugonia (in concorso a Venezia82) non è il remake di quel geniale esordio sudcoreano del 2003, quanto il tentativo di Yorgos Lanthimos di riportarne al centro della scena l’urgenza espressiva, rilanciandola nella contemporaneità. L’intreccio non è poi dissimile: un uomo vittima delle sindromi del complotto si convince che la sua miseria sia dovuta agli alieni di Andromeda e al loro piano per sterminare l’umanità. Così rapisce il capo di una grossa corporation, che ovviamente per lui è uno degli invasori, perché lo porti dai capi nascosti nella loro nave spaziale dove cercherà di negoziare un patto fra specie. Se il contesto sembra definire una diversa declinazione delle paranoie del capitalismo (dalla Corea ci siamo spostati negli Usa), certo il cambio di dislocazione porta in dote il j’accuse a una tipologia sociale ben precisa, tra Qanon e MAGA – e in questo senso la scelta del sodale Jesse Plemons rievoca schegge di immaginario reazionario collegato, vedi alla voce Civil War di Alex Garland.

È cambiata nel frattempo anche la vittima, che ora è una donna in carriera (l’ormai immancabile Emma Stone, rasata a zero come Natalie Portman in V per Vendetta) che dirige un’industria farmaceutica e cerca la nuova cura definitiva alle malattie che affliggono l’umanità – tra incel e teorie antiscientifiche il quadro, insomma, è molto chiaro. In questo senso, Lanthimos cerca ancora una volta di forgiare una nuova visione del mondo: usa così i complotti come materiale satirico rispetto a una società in preda al caos – forza che da sempre governa i personaggi del suo cinema – e lavora su una logica dell’accumulo fatta di un’umoralità cangiante. Diversamente dal prototipo coreano che assecondava in modo follemente coerente la propria vena grottesca, qui il tono è infatti più incline agli umori della tragedia, almeno fino a quando il film non decide di abbracciare la propria intrinseca propensione all’assurdo nella parte finale, decisamente più ironica. Dal seminterrato del Sacrificio del cervo sacro si arriva così al surrealismo delle Povere creature!, fra torture e esperimenti che tracciano una mappa sociale e emotiva indubbiamente capace di sorprendere.

Nel far questo l’autore cerca conforto in una spazialità variabile, che passa tanto per gli ambienti ampi ma chiusi in cui si svolge molta dell’azione (complice un uso del grandangolo ormai suo marchio di fabbrica) quanto per una verticalità alla Bong Joon-ho nel descrivere i vari livelli di follia che si rispecchiano nell’idea del potere. Perché, alla fine, questa storia di alieni e sequestratori è anche e soprattutto una chiave di lettura di un eterno conflitto fra chi controlla e chi è controllato, chi imprigiona e chi è liberato, giocando tanto sulla sopraffazione fisica quanto su quella psicologica e sulla forza delle possibilità data dal possesso delle risorse. Quelle economiche di chi dirige le aziende, quelle brute delle armi e quelle naturali delle api da salvare, perché tutto è sempre strettamente collegato. La scena finale in questo senso è la sintesi più perfetta di un disordine che si fa ordine nel pianeta e di una follia generale che trova liberazione in una personalissima (e per assurdo anche commovente) idea poetica.


