Legami di famiglia, equilibrismi affettivi tra fratelli, il corpo stanco eppure ancora centrale di una vecchia nonna 93enne che ha bisogno di essere accudita. È messicana e il suo nome è América, è linda, svanita eppure ancora presente a se stessa e alla sua condizione. È la protagonista trasversale dell’eponimo documentario di Erick Stoll e Chase Whiteside, presentato in Concorso a Pesaro Nuovo Cinema 54. I due giovani registi americani erano andati in Messico con l’intenzione di filmare i turisti statunitensi, uno sguardo oltre il muro per cercare l’America trumpiana, che però ha prodotto l’incontro con Diego, giovane trampolinista messicano, e con i suoi due fratelli. E attraverso loro troviamo un’altra América, come si chiama la vecchia nonna di quei ragazzi. Ecco quindi la storia di tre giovani uomini e una vecchia signora, circondata di attenzioni, tempestata di baci e carezze: la dolcezza della relazione è la materia più palpabile che il film osserva, la vera trama narrativa di un film che scandisce i tempi delle attenzioni che i tre fratelli messicani riversano sulla anziana “abuelita”: hanno dovuto lasciare le loro vite da artisti circensi per accorrere al suo capezzale dopo che la donna è stata trovata per terra insanguinata, caduta dal letto, e loro padre è stato accusato di incuria dai servizi sociali e mandato in prigione. Il sospetto è che la nonnina abbia in realtà procurato volutamente l’incidente per riunire attorno a sé la famiglia, ma ciò che conta per il film è la tensione affettiva e la trasversalità relazionale che trova nel rapporto dei tre giovani con la vecchia nonna e soprattutto nel loro rapporto reciproco.
Le loro vite in equilibrio sui trampoli e sospese sulle funi dei loro esercizi circensi hanno dovuto trovare una nuova stabilità nel gioco di relazione che li vede attenti a ogni gesto della donna, intenti a lavarla, nutrirla, soprattutto parlare con lei, rassicurarla, renderla consapevole. Il loro approccio diverso alla condizione della donna produce divergenze, qualche volta litigi: l’uno considera solo il bisogno di accudirla e preservarla, l’altro pensa che si stia forzando il suo corpo a una resistenza che non vorrebbe, l’altro ancora è più impaziente e cerca di imporle l’esercizio fisico… Il padre in prigione resta figura esterna, controcampo ideale, con l’oscura accusa di aver trascurato la vecchia madre, alla presenza forzatamente e gioiosamente lenitiva dei tre figli. Stoll e Whiteside costruiscono una narrazione documentaria piuttosto naturale, anche se è evidente sin dall’incipit che giocano con l’istinto esibizionista dei tre protagonisti, con il loro equilibrismo naturale. Il film è limpido, solare nel suo approcciarsi al tema della vecchiaia, della malattia, della relazione curativa, tende a non problematizzare la presa in carico, anche se la mostra nella sua difficoltà. Si sente il rischio persistente del “reenacting”, della forzatura nella terza relazione, quella dei protagonisti con la macchina cinema: troppa pulizia, troppa limpidezza nel gioco scenico, manca l’imprevisto, l’inatteso emotivo, la fuga prospettica nella relazione. Tutto è funzionale, troppo funzionale…