Giovanna Gagliardo ( “Pavese è il magnifico compagno di viaggio che – nelle colline di Santo Stefano Belbo – ti fa intravedere il mare azzurro di Itaca”) apre il film con il ticchettio di una macchina da scrivere, immagini della Torino d’epoca, le previsioni del tempo radiofoniche del 26 agosto 1950 (ultimo giorno di vita di Cesare Pavese). E poi arriva la parola di Pavese (interpretata da Emanuele Puppio). Che ci riporta a una lucida e necessaria accettazione del proprio destino, pur nella consapevolezza della sua inconoscibilità: «Guardo il consuntivo dell’anno che non finirò» ; «è cominciata la cadenza del soffrire all’imbrunire, strette al cuore fino a notte» ; «non ci si uccide per l’amore di una donna, ma perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità»…Il documentario è diviso per capitoli (Il mestiere di studente, Il mestiere di poeta, Il mestiere di traduttore, Il mestiere di editore, Il mestiere impossibile, Il mestiere di rinascere) e attraversato da una serie di interviste che aiutano a comporre un ritratto dell’autore di La bella estate. Alcune arrivano dall’archivio della Fondazione Cesare Pavese e sono le testimonianze di chi non c’è più come Franco Ferrarotti, Tullio Pinelli e Fernanda Pivano. La parte più interessante del documentario è quella che lavora sul paesaggio che lo interpreta e propone Anguilla, protagonista di La luna e i falò che accompagna, con un carro tirato da placidi cavalli, due sorelle al ballo. Ci guida con le sue parole nella notte stellata della campagna torinese verso un’ipotesi d’amore: «partimmo al chiaro dell’acetilene e poi nel buio della strada in discesa andai adagio ascoltando gli zoccoli. Irene s’era fatta su in una sciarpa, Silvia parlava e parlava della gente, dei ballerini dell’estate…». Da Il mestiere di vivere emergono con forza i momenti felici della comunicazione immediata e quasi magica con la natura.
Poi arrivano anche le immagini di una Torino, sbiancata dai bombardamenti, lacera, frettolosa, color calce sono lo sfondo ideale per occuparsi di La casa in collina, probabilmente il capolavoro di Cesare Pavese e uno dei romanzi più importanti del secondo dopoguerra. Accanto a Una questione privata di Beppe Fenoglio e Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi , compone un trittico ambiguo e suggestivo sulla Resistenza italiana. Corrado, il protagonista del romanzo, di fronte al precipitare degli eventi rimane alla finestra, non trovando dentro di sé, i motivi sufficienti per una scelta che lo conduca, in un modo o nell’altro, fra gli uomini. La sua vicenda con Cate, rivista per caso in collina dopo tanti anni, insieme al figlio Dino, che non si sa di chi sia, è forse il più bello fra tutti gli impossibili amori pavesiani. Il trascorrere delle stagioni possiede una compattezza fisica, da natura morta. Al momento dell’armistizio Corrado ripara in un convento da cui poi intraprende la via del ritorno e la Storia è una voce alla radio…Giovanna Gagliardo evidenzia la scelta di Pavese di vedersi in Corrado, uno di quelli che non hanno fatto abbastanza. Comunque lo scrittore era finito al confino, ma non si è mai perdonato, con un infinito stoicismo, di non essere stato all’altezza del sacrificio dell’amico Leone Ginzburg. Nella sua breve esistenza – Pavese non aveva 42 anni quando si è tolto la vita – ha tradotto 21 romanzi di autori come Sinclair Lewis, Dos Passos, Joyce, Dickens, Steinbeck, Defoe, Melville (epocale il suo Moby Dick). Il film evidenzia come da giovanissimo è pronto a difendere le sue traduzioni quando un editore (Bemporad) mette in dubbio l’audacia di alcune sue scelte linguistiche. Prima di andarsene scrive 3 raccolte di racconti, 8 romanzi e 3 raccolte di poesie. In più c’è l’insegnamento e il totalizzante lavoro che consacra alla casa editrice Einaudi, con l’impegno redazionale, la creazione di collane, la scoperta di nuovi talenti. Nel documentario si indaga la sua vita sentimentale, il rapporto con Bianca Garufi, la sua Leucò, l’amore travolgente per Constance Dowling (in Italia con la sorella che partecipa a Riso amaro, recita in La città dolente diretto da Mario Bonnard). Per impedire che Costance torni negli Stati Uniti scrive inutilmente soggetti, abbozza sceneggiature che la vedono protagonista. Ma il suo interesse per il cinema è autentico: si interroga sulla specificità del linguaggio cinematografico, riflette sui film che vede, si confronta con l’amico Tullio Pinelli (lo sceneggiatore di Fellini). Stritolato da una delusione esistenziale Pavese confida nel lettore, come nota acutamente Claudia Durastanti:”un uomo inerme nei confronti della vita che si affidava solo a chi lo leggeva…”.