Nel 1932 Leni Riefenstahl, autrice di film di propaganda per il Terzo Reich, si presentò nell’ufficio berlinese della giornalista Lotte Eisner. Le ronzò attorno con insistenza, intenzionata a presentarle «un uomo meraviglioso»: Adolf Hitler. Eisner rifiutò l’incontro ma in una video intervista di molti anni dopo dirà: «È stato un errore. Sarei dovuta andare a prendere il tè con lui, con una bottiglietta di veleno». L’aneddoto riaffiora nel documentario Lotte Eisner – Un lieu, nulle part di Timon Koulmasis, visto all’edizione numero 35 del mai troppo encomiato Festival del Cinema Ritrovato di Bologna e disponibile ancora per alcuni giorni su mymovies). Un ritratto di archivi che sprona a studiare più a fondo una pioniera della cultura cinematografica e della conservazione del patrimonio. Nata a Berlino nel 1896, Lotte Henrietta Regina Eisner – contemporanea di Maria Adriana Prolo, la fondatrice e direttrice del Museo del cinema di Torino, con cui condivideva la formazione classica e il profilo di storica e collezionista – quando nel 1933 Hitler fu nominato cancelliere, lasciò Berlino (dove rientrerà, scioccata dalla vista della città, solo nel 1953) per Parigi. Archeologa mancata, collaboratrice di varie riviste tedesche come giornalista, critica teatrale e cinematografica, era infatti già stata individuata dalla stampa nazista come sospetta comunista («quando le teste rotoleranno, cadrà anche la sua», scrisse un periodico di regime). Un altro incontro decisivo a cui fortunatamente Eisner si presentò, ebbe luogo nel 1935, con Henri Langlois e Georges Franju, che lei intervistò sul loro impegno di conservatori di pellicole. Insieme a loro avrebbe fondato l’anno seguente la Cinémathèque française, tempio della cinefilia mondiale, non senza aver svolto anche lavori più generici (parlava tedesco, inglese, francese, spagnolo, italiano, oltre ad aver insegnato latino e greco).
Con lo scoppio della guerra, l’esule Eisner subì le persecuzioni toccate a molti, compreso il collega Siegfrid Kracauer: fu tra gli ebrei rastrellati al Vélodrome d’hiver di Parigi nel 1940, venne deportata al campo di internamento di Gurs e la sua famiglia venne sterminata a Terezín. Grazie a Langlois ottenne nel 1942 documenti falsi e poté lavorare sotto il nome di Louise Hélène Escoffier, anche catalogando le pellicole nascoste da Langlois nel castello di Béduer, per preservarle da sequestro e censura nazista. Senza poter nemmeno accendere il fuoco, d’inverno, per non rischiare di distruggerle («il cinema è un’arte fragile», dichiarò, e come mostra il documentario, le bobine di celluloide venivano “riconvertite” in smalto per unghie o lucido da scarpe). Lavorò come conservatrice e curatrice degli archivi della Cinémathèque dal 1945 al 1975. Secondo Langlois, a lei si devono i tre quarti dei materiali conservati al Museo del cinema di Parigi (inaugurato nel 1948 e attualmente collocato nella sede progettata da Frank Gehry): oggetti di scena, affiches, costumi, sceneggiature, disegni. Tra i più clamorosi, le riproduzioni dei disegni preparatori del Gabinetto del dottor Caligari (grazie al decoratore Hermann Warm) e la replica dell’“uomo-macchina” di Metropolis. Eppure, come ricorda lo studioso Laurent Mannoni, la mostra sull’espressionismo che Eisner aveva a lungo studiato e desiderato si è tenuta alla Cinémathèque solo nel 2006, nel settantesimo anniversario della fondazione.
In campo accademico il nome della prima critica, storica e conservatrice del cinema tedesco vivrà per sempre attraverso i suoi saggi sul cinema della repubblica di Weimar: da Lo schermo demoniaco (pubblicato in Francia nel 1952, in Italia da Bianco e Nero nel 1955 e di nuovo nell’83 da Editori Riuniti) alla monografia su Fritz Lang (edizione francese nel’64, da noi da Mazzotta, 1978), fino a Murnau. Vita e opere di un genio del cinema tedesco (Alet, 2010). Nella vivacissima Berlino degli anni 20 era stata invitata da Lang sui suoi set, diventandone amica, ben oltre la Seconda guerra, e frequentò, tra gli altri, Georg Wilhelm Pabst, Peter Lorre, Bertold Brecht e Louise Brooks. Fu lei a segnalare al regista di M – Il mostro di Düsseldorf gli autori del Nuovo cinema tedesco degli anni 70 che poi le dedicarono i loro film. Ecco perché nelle foto di lei anziana sul set di Nosferatu di Herzog è circondata affettuosamente dal cast, che sembra venerarla come una divinità. Ed ecco perché in Lotte Eisner – Un lieu, nulle part, rendono omaggio alla sua intelligenza critica e alla sua tenacia gli storici e critici del cinema Laurent Mannoni e Bernard Eisenschitz, Werner e Martje Herzog, Volker Schlöndorff e Wim Wenders (che afferma: «Fu una delle prime a capire il potere mitologico del cinema»). Eisner stabilì una legittimazione, un ponte e una continuità tra gli espressionisti e i filmmaker della rinascita dopo il vuoto postbellico. Sempre sulla base di un metodo analitico, rintracciando principi stilistici e temi ricorrenti comuni della cultura germanica in film così lontani tra loro (che sempre Wenders rievoca nell’intraducibile concetto di stimmung). Gli stessi che aveva identificato nei suoi scritti, dotati di quella rara capacità di far vivere sulla pagina il linguaggio del cinema nel confronto dinamico con le altre arti figurative, a lei ben note.
L’ultimo dei molti incontri spettacolari della sua esistenza avvenne nel 1974: Werner Herzog, che la filmò più volte e la considerava sua mentore, venuto a sapere che era malata, viaggiò a piedi per ottocento chilometri da Monaco a Parigi in una sorta di rito propiziatorio, perché non cedesse alla malattia. Perché per lui la Eisner rappresentava «l’ultima coscienza universale del cinema». Poco dopo la morte della Eisner, nel 1983, in Germania uscì la sua autobiografia: Ich hatte einst ein schönes Vaterland – Memoiren (Una volta avevo una bellissima patria, da un verso di Heine). In attesa che qualcuno la traduca – magari proprio la Cineteca di Bologna, chissà – e che si giri un film sulla sua vita e sul rapporto con l’ingombrante Langlois, grazie al film di Koulmasis ci si può finalmente avvicinare a questa irriducibile intellettuale del Novecento.