Come già nel film d’esordio, ci sono ancora una giovane donna e di nuovo un racconto di formazione poco convenzionale, al centro di Un anno di scuola, secondo lungometraggio di Laura Samani, in gara nella sezione Orizzonti della 82a Mostra del Cinema di Venezia. La modalità espressiva appare stavolta meno immaginifica e ancorata a una prossimità spazio-temporale più netta, quando invece in Piccolo corpo (selezionato nel 2021 per la Semaine de la Critique a Cannes 74) la cineasta triestina aveva evocato un mondo sospeso tra un passato arcaico e un orizzonte sfocato, in un villaggio di pescatori della costa adriatica giuliana, in principio di ‘900; e da lì aveva cominciato a tenere sotto osservazione il doloroso percorso di emancipazione (fisico e spirituale) di una madre sfortunata dalla prigione – sociale, culturale, di genere – in cui era rinchiusa. Firmata dalla stessa regista con Elisa Dondi, la sceneggiatura si basa sul romanzo breve di Giani Stuparich, scrittore ed eroe irredentista della Prima guerra mondiale, pubblicato nel 1929 e già oggetto di un adattamento (televisivo) nel 1977, con la regia di Franco Giraldi (un altro che era nato in un villaggio di confine da madre slovena e padre istriano).

Una storia ambientata a Trieste alla vigilia del conflitto, che ruota intorno a una ragazza che ottiene (prima a raggiungere il traguardo in una scuola pubblica) l’accesso all’ottavo anno del ginnasio, passaggio obbligato per accedere agli studi universitari e provare a conquistarsi un futuro indipendente: sola femmina tra una ventina di allievi maschi, catalizza inevitabilmente le attenzioni e le emozioni di tutti, con conseguenze varie. Della novella di Stuparich, Samani riprende la struttura, i nomi dei tre principali personaggi maschili e pure l’idea di legare strettamente la vicenda a un elemento dirompente della Storia, pur nella consapevolezza che nulla possa rivaleggiare – sia sul piano reale che a livello simbolico – con il cambiamento rappresentato dalla Grande guerra per la generazione messa a fuoco nel libro. Ma ci aggiunge, la regista, la propria esperienza personale, perché nel liceo cittadino che fu il luogo principale dell’azione per Stuparich, ella ha confidato, in sede di presentazione del film, che faceva parte parte di una banda di affiatati amici in cui era l’unica ragazza. Cambiata dunque pelle senza troppo variare valori e temi di fondo, la trama del film risulta dalla combinazione di queste due diverse fonti e si svolge nell’anno scolastico a cavallo tra 2007 e 2008, che, in particolare a Trieste, è latore di cambiamenti epocali, per il valore che assume l’abolizione dei confini con la vicina Slovenia, entrata a pieno e definitivo titolo nella Comunità Europea. Un anno che, nella finzione cinematografica, segna invece l’arrivo all’Istituto Tecnico “Marie Curie” – frequentato fino a quel momento da soli maschi – della diciottenne svedese Fred(rika), giunta in Italia al seguito del padre, dirigente (meglio: “tagliatore di teste”, come si scoprirà nel corso della narrazione) in una grossa azienda del territorio.

Dopo qualche incomprensione iniziale, Fred, più libera e meno zavorrata da sovrastrutture mentali rispetto alle coetanee italiane, diventa amica di un trio di inseparabili guasconi – il sensibile Antero, lo sciupafemmine dal cuore triste Pasini, il cucciolone protettivo Mitis – e fa suo malgrado saltare le dinamiche interne al sodalizio, fino ad allora retto da regole chiare, in un processo che farà crescere ciascuno di loro. Un anno di scuola ha un abito da teen-movie, ma nasconde più strati di senso, perché l’autrice conferma di essere interessata ai “processi di liberazione” da contesti opprimenti (come aveva fatto già capire con l’opera prima). Che in questo caso riguardano “una parità emotiva non ancora raggiunta”, perché Fred vorrebbe essere come i suoi amici maschi in un modo che il film illustra efficacemente, ovvero “poter desiderare tutto, essere nel gruppo e anche in coppia con uno di loro, che invece pretendono da lei che sia solo una cosa o l’altra”. Se il mondo al tempo di Stuparich si scandalizzava per una donna che studiava, quello di quindici anni fa o di oggi fatica comunque ad accettare una donna che desideri più cose diverse insieme. Di fatto, Fred è il detonatore che provoca l’esplosione (anche) degli altri, esattamente “come una mela in mezzo ai kiwi li fa maturare più velocemente”, per richiamare la metafora utilizzata dal padre di Fredrika con l’intento di descrivere la situazione e che in un primo momento la ragazza non apprezza, salvo farla sua successivamente.

Che il cammino di formazione sia in qualche modo completato, lo conferma poi la struttura circolare della pellicola, che si apre e si chiude con due notevoli pianisequenza di segno opposto: quello iniziale che porta una Fred disorientata dentro l’istituto scolastico, quello finale che ne segue l’uscita, passo leggero e il sorriso giusto per sigillare un periodo comunque felice della vita. Perfetta la colonna sonora, che ammanta di regionalità una playlist generazionale alternativa, e azzeccato il cast, di genuina freschezza, che mette in vetrina quattro attori alla prima esperienza, affiancando alla scandinava Stella Wendick (l’unica con piccoli trascorsi teatrali) dei muli (ragazzi) triestini come Giacomo Covi, Pietro Giustolisi e Samuel Volturno, che ci conducono per una volta fuori dagli abituali stereotipi adolescenziali romano-meneghino-partenopei del nostro cinema, anche giocando su un singolare mix di italiano, dialetto, svedese e inglese. Samani regala loro uno sguardo scanzonato e affettuoso, mentre si allenano nella palestra emotiva che li prepara al futuro.


