C’è Jean Genet dall’altra parte del muro di Le paradis, opera prima del belga Zeno Graton vista alla Berlinale, sezione Generation 14+. E dialoga coi quattrocento colpi truffauttiani, in questa storia di adolescenze entre les murs delle istituzioni di contenimento e riformazione delle gioventù difficili. È un film pulsionale e lucido, questo esordio di Zeno Graton, in cui la libertà e il desiderio guardano in faccia le loro paure, esattamente come accadeva in Un chant d’amour, esplicitamente citato dal regista. Che però declina la sua storia nel tempo dell’adolescenza e quindi in una casa correzionale per ragazzi al posto della prigione, regole ferree ma niente carcerieri. Per Joe, alle soglie dei diciotto anni, le porte della vita adulta si stanno per aprire ma il timore di un mondo nuovo gli stringe il petto. C’è un giudice che deve decidere per lui e ci sono i formatori che lo preparano al grande passo. Ma dall’altra parte del muro della sua stanza ora c’è il nuovo arrivato, William, ombroso e desiderabile, forse proprio per questa sua inconoscibilità. E l’attenzione che i due impercettibilmente si dedicano cresce lentamente ma inesorabilmente. Le paradis però non è primariamente un film sulla scoperta del desiderio, lavora piuttosto sulla paura di aprirsi al mondo, sul timore che le mura di contenimento dell’infanzia vengano abbattute e la complessità del reale si faccia avanti con tutta la sua evidenza.
La storia di Joe è iscritta nel cerchio in cui è cresciuto e l’arrivo da fuori di William è il polo di attrazione di un mondo che lo attende al di là dell’istituzione. Zeno Graton costruisce l’amore tra il suo protagonista e William come uno specchio in cui si riflette la linea di fuga impossibile da un’infanzia che contiene tutti i sentimenti: le paure e i desideri, la gioia e il dolore… Ogni elemento dinamico del film, a partire dall’attrazione che lega Joe e William, è dunque trattenuto nello spazio di una istituzione che crea un perimetro doloroso ma tutto sommato comodo, dal quale il protagonista in realtà ha paura di uscire. In questo senso il rimando a Un chant d’amour è molto più di un semplice omaggio, perché spinge sulla linea del desiderio impossibile il rapporto tra prigionia e libertà. Così come il dialogo implicito (e figurativo) con I 400 colpi di Truffaut serve proprio a stazionare sul fermo immagine che chiudeva il capolavoro del regista francese, ribaltato qui in una corsa infinita tra le mura di una prigione che contiene la vita.