La verità trova sempre un modo per sopravvivere alla sua negazione. Lo dice chiaramente Călin Peter Netzer, presentando Ana, mon amour (in Concorso alla Berlinale 67), che infatti è un film sul rapporto recondito e insondabile tra la verità e la menzogna, ovvero tra i sentimenti e le emozioni. Già nella sua strattura a incastri imprecisi, nel suo lavorare di spostamenti progressivi degli eventi, tra narrazioni della verità, ricerche delle ragioni, slittamenti onirici, Ana, mon amour dice del bisogno del regista di scollarsi dalla cronaca psicologica delle relazioni in campo tra i personaggi. Il suo precedente film, Child’s Pose (Orso d’Oro alla Berlinale 2013), insisteva sul rapporto di dipendenza psicologica di un giovane uomo incapace di svincolarsi dalla stretta familiare, e lo faceva trovando nella struttura della metafora psicologica la dimensione per un’indagine sulla negazione della verità. Lo schema ritorna ora, in maniera più trasversale e meno immediata, anche in questo suo nuovo lavoro, immersione nel flusso psicologico instabile della relazione tra un giovane uomo, Toma, e la sua ragazza, Ana: si amano, ma lei deve fare i conti con turbamenti regressi, che risalgono alla sua relazione con la famiglia, col padre in particolare, e che si manifestano in crisi di panico sempre più devastanti. Lui la affianca, sorreggendola nella sua ricerca di una via d’uscita, in realtà facendo a sua volta i conti con un rapporto con i genitori non meno complicato e conflittuale.
La loro unione è lo specchio in cui si riflette la solitudine del dramma psicologico che si portano dentro, ma ciò che interessa a Netzer è più che altro il collante che tiene insieme questi due innamorati, che ha la vischiosità insana dell’unione familiare disorganica da cui entrambi provengono. La focalizzazione è su Toma: è sua la narrazione, distesa sul lettino dello psicanalista che lo accoglie nel suo studio e lo spinge a chiarire i motivi per cui è stato per tanto tempo accanto a Ana per poi lasciarla. Lo spiazzamento dei piani temporali, visualizzato sui cambiamenti apparenti di Toma e di Ana, serve ad articolare in confusione lo sviluppo della narrazione, evitando gli incastri didascalici, le spiegazioni troppo dette. In realtà a Netzer interessa soprattutto l’ambiguità della verità che nutre la storia di questo giovane uomo, che rappresenta come forza e compiutezza quella che in realtà è la sua fragilità. Il film si sposta così sul piano inclinato di una relazione che inscena l’unità ma elabora la frattura, lasciando lo spettatore nudo di fronte alle progressive elaborazioni delle regioni pregresse che emergono nel tracciato per niente schematico che propone. In questo Netzer sembra distaccarsi sia dal suo film precedente che dalla traccia dominante del cinema rumeno contemporaneo, in cui la posa morale e lo scandaglio degli eventi vanno di pari passo, non solo narrativamente ma anche filmicamente. Ana, mon amour è una sorta di grumo oscuro di verità rivelate nella penombra della coscienza, capace di lasciare lo spettatore spiazzato e solo di fronte alla sostanziale e stupenda inconclusione del suo vissuto.