Dice che ai fan non è piaciuto affatto, che già si firmano petizioni per cassarlo dalla continuity della serie… Affari loro, perché Gli ultimi Jedi è un ottimo Star Wars di nuova generazione. Nettamente migliore del Risveglio della Forza. Un film sagace nell’elaborazione dei character, agile nelle curve della serialità, disinibito nelle svolte narrative, importuno rispetto alla sacralità dell’oggetto e soprattutto fortunatamente imperfetto e serenamente ironico. Insomma un film tutt’altro che monolitico, capace di dismettere qualsiasi sacralità del testo a scanso di equivoci circa la talebanizzazione della saga. Rian Johnson si fa carico con leggerezza e divertimento della scrittura su carta velina che richiede la serialità imposta dalla Disney a quella che un tempo era una saga (per molti conclusa nei sei episodi lucasiani), e lavora per inversioni e sviste, fughe gioiosamente codarde dalla presunzione della norma. Gli ultimi Jedi è un film squisitamente antitotemico, che lavora sull’abbattimento dell’autorità narrativa, invece di danzarvi attorno evocando la pioggia di idee: disperde [occhio, ché qua e là si va di spolier…] la sacralità di Luke Skywalker e quella della Principessa Leia, sbaraglia il risibile Snoke, rende umano l’oscuro Kylo Ren per lasciarlo poi in scena come villain a metà. Le funzioni narrative ridiscutono la loro funzionalità, lasciando per esempio che la continuity in specularità tra Luke e Rey, proposta dal ben più placido e accomodante Episodio VII, si disperda nei marosi che si infrangono sulla costiera di Ahch-To, che non è certo Tatooine (acqua, non deserto) e che nasconde voragini di Oscurità piuttosto che far splendere due soli.
Luke che, noncurante, si getta alle spalle la sacra reliquia ribelle della sua spada laser resta l’immagine iconica di un film che sbeffeggia il proprio mito, lo dissolve gioiosamente, non per gusto del sacrilegio ma per intelligenza di progresso. La semplicità con cui Johnson risolve visivamente la simbiosi chiaroscurale tra Ren e Rey nell’immediatezza di uno stacco di montaggio, nella semplicità di un controcampo a distanza, è atto di purezza ejzenstejniana che fa bene al cuore in epoca di morphing e motion-capture acting (con buona pace del Leader Supremo Snoke di Andy Serkis, che infatti verrà adeguatamente dicotomizzato…). In realtà questo è un film che ripristina proprio quella duplicità che è fattore determinante della saga lucasiana, rimuove lo stratagemma della simbiosi, nega quell’apologia del conflitto, su cui si giocano le carte degli script editor contrattualizzati, che non a caso fu a suo tempo sdegnosamente ricusato da Darth Vader dinnanzi alla spada del figlio Luke. Rian Johnson, autore di Looper e prima ancora di Brick, è uno che sulla rimozione dell’opposto ci ha lavorato già di suo e qui ritorna a occuparsi di corpi che affrontano la nemesi che hanno in se stessi e di fronte a loro. Questo è un film di assenti che sustanziano se stessi nella distanza del negarsi al proprio mito, alla propria ragione: Luke è un Odisseo senza nostos, Leila è un fantasma che ritrova la sua forma di ologramma e resuscita se stessa (geniale sberleffo in contraddizione rispetto a ogni attesa di exit strategy per la morte di Carrie Fisher…). Luke brucia il totem degli Jedi con l’irridente complicità di Yoda, ma non lascia mai Ahch-To: rifiuta la missione salvifica evocata da Rey, che lo vuole come anticorpo del Primo Ordine, ma evoca se stesso dinnanzi alle armate di Ren come proiezione di un’immagine passata. Sembra quasi che Rian Johnson voglia lavorare sull’idea di una separazione tra immagine e corpo per consegnare la carne e il sangue, la verità della lotta, alle nuove generazioni.
Alla fine Gli ultimi Jedi fa curiosamente venire in mente il Golding del Signore delle mosche, l’idea di una astrazione nel regno dell’infanzia istintuale: storia di ragazzini in lotta con se stessi per reincarnare lo spettro della violenza degli adulti. Annullare la Resistenza dopo aver annullato la Repubblica, schiantare l’incrociatore dei ribelli dopo aver schiantato la Morte Nera… E poi c’è soprattutto la sensualità perversa e pervasiva del rapporto tra Ren e Rey, che resta la cosa più performativa del film, l’ipotesi più prevedibile e azzardata allo stesso tempo: la tensione melodrammatica, la visceralità dell’attrazione/odio, il contatto della carne, la fermezza dello spirito… La scena della lotta dei due contro Snoke nella stanza rossa è visivamente magnifica e concettualmente molto interessante. Poi vengono i caratteri prevedibili, che agiscono secondo schema in onore della progressione della serie: Dameron, Finn, i robot, che giocano da fatali comprimari. Ma a chiarire il tutto c’è il finale: il piccolo schiavo sul pianeta Cantonica, che ramazza con accenni di Forza nelle mani come un novello apprendista stregone, ha una magia tutta sua, che la dice lunga sullo spirito con cui Johnson ha affrontato la sfida disneyana. Per quel che ci riguarda i fan possono stracciarsi le vesti sino a rimanere nudi. Peccato che gli AD disneyani guardino ai loro tweet come alla bibbia…