Deve essere stata una sfida interessante per Justin Kurzel quella di trasferire sul grande schermo le peculiarità dell’esperienza ludica di Assassin’s Creed, tra i videogame più longevi e di successo degli ultimi anni. Non stupisce che le innumerevoli potenzialità di un prodotto così ricco tanto nel suo impianto estetico e iconico che in quello puramente narrativo, siano state percepite come terreno fecondo per un adattamento cinematografico verso quella che, a quanto pare, potrebbe divenire una vera e propria saga, con un secondo capitolo già in fase di sviluppo. Intanto, non si può dire che il film di Kurzel abbia saputo trovare un buon punto di incontro tra le attese dei fan più affezionati e il pubblico a digiuno di gaming, nonostante il regista provi chiaramente a ricreare le atmosfere e le dinamiche di questo mondo in cui la fantascienza si fonde alla Storia aprendosi alle suggestioni dei viaggi del tempo e delle vite passate dei nostri antenati. La vicenda del film, una storia originale ispirata all’universo del videogame, ruota infatti attorno all’Animus, una macchina futuristica capace di far rivivere la “memoria genetica”di una persona e dunque di permetterle il viaggio attraverso la vita di un suo avo, anche di secoli indietro. Esattamente quanto accade a Callum Lynch, un detenuto costretto dalla società Abstergo a sottoporsi all’Animus per rivivere le gesta di un suo antenato vissuto alla fine del XV secolo, l’assassino Aguilar de Nerha, ritrovandosi così al centro di un atavico conflitto fra l’ordine dei Templari e la Confraternita degli Assassini, in lotta per la leggendaria Mela dell’Eden che conterrebbe il segreto del controllo dell’umanità (il “codice genetico del libero arbitrio”).
Se il punto di forza nel videogame Ubisoft era la possibilità del giocatore di esplorare e interagire a proprio piacimento con luoghi storicamente reali (la Firenze rinascimentale, ad esempio), ricreati fedelmente per un’esperienza immersiva in piena libertà, nel film regista e sceneggiatore hanno dovuto invece fare i conti con la passività dello spettatore, con i limiti che introduce il passaggio a un mezzo narrativo privo di una dimensione interattiva. In questo sembrano non aver tenuto conto del vasto materiale che obiettivamente una storia come questa, aperta a molteplici strade nel passato, avrebbe potuto offrire loro, con il risultato che non solo il baricentro del film è tutto spostato verso un presente scialbo e piatto, che neppure il gran cast –Michael Fassbender, Marion Cotillard, Jeremy Irons, Charlotte Rampling – riesce a rendere più attraente; ma i segmenti più intriganti ambientati nella Spagna dell’Inquisizione sono saturi di sterili sequenze d’azione in cui gli assassini incappucciati si lanciano in infinite acrobazie ispirate al parkour, uniche rimasuglie di un’esperienza ludica evocata in maniera sfacciata e insistita dalle simulazioni dell’Animus. Assassin’s Creed sembra allora più un’occasione mancata che un buco nell’acqua, dove lo slittamento di un universo narrativo da un linguaggio all’altro resta sospeso e fa emergere tutta la complessità di una traduzione in cinema di quella “immersione” connaturata al medium del videogame.