Ci sono registi che, pur avendo scritto pagine rilevanti di storia del cinema, sono stati dimenticati. è uno di questi. Nato a Chicago nel 1953, negli anni Ottanta e Novanta, dopo esperienze nell’editoria e nella grafica, ha realizzato una manciata di film che lo hanno reso un cineasta di culto. Cinema underground, “no wave”, d’avanguardia, quello di Sayadian, che ha ri-disegnato l’hard-core tras-portandolo nei territori della fantascienza, dell’horror, inserendo le performances di attrici e attori in scenografie di esplosiva visionarietà dove collidono e dialogano esperimenti scientifici, sessuali, coreografie astratte, punk, lisergiche, folgorazioni oniriche, dove i corpi maschili e femminili, spesso indossanti travestimenti grotteschi, si dibattono negli spazi circoscritti, claustrofobici, disseminati di oggetti al fine di elaborare discorsi meta-testuali pregni di cromatismi surreali e tracce musicali stridenti e emananti pulsioni taglienti. Cinema dei sensi e della radicale ri-messa in gioco di essi, quello dell’artista visivo statunitense nei suoi ruoli di regista, sceneggiatore, produttore. Tre sono i capolavori firmati tra il 1981 e il 1989 da Sayadian e dai suoi stretti collaboratori, nel segno di una factory artistica sorprendente e talentuosa (ma i loro nomi sono pressoché impossibili da trovare nei testi di storia del cinema, anche quelli dedicati al porno). Usano nomi d’arte, come tanti che hanno lavorato nel cinema a luci rosse. Lo pseudonimo di Sayadian è Rinse Dream, quello dello sceneggiatore Jerry Stahl (ex firma della rivista Hustler di Larry Flint, dove iniziò la sua carriera anche Sayadian) è Herbert W. Day, quello del direttore della fotografia Francis Delia è F.X. Pope. Nel 1981 i tre sodali esordiscono con Nightdreams, film con cui Sayadian avvia la sua filmografia producendolo e scrivendolo insieme a Stahl, mentre dietro la macchina da presa c’è Delia.
Nella prima frase pronunciata dalla protagonista si cristallizza già tutta la ricerca teorica di Sayadian: “I know you are watching me”. Il guardare e l’agire sono al centro di questa “trilogia” che in Dr. Caligari (1989), dove horror, porno, psicanalisi trovano felice coabitazione, contempla la presenza di schermi televisivi all’interno delle inquadrature, veri e propri corpi della mutazione con echi cronenberghiani “videodrome”. In mezzo, ecco l’altro oggetto alieno: Café Flesh, del 1982. Ed è questo rarissimo film (fuori da ogni mercato, su internet lo si trova solo sui siti porno) che la Settimana della critica di Berlino ha scelto di proiettare all’interno del programma intitolato “Midnight Metabolism”. Imperdibile. Café Flesh è ambientato in una società futura dove il 99 per cento dell’umanità è sessualmente negativa, ovvero non può più fare sesso, altrimenti si ammala gravemente, colta da violente reazioni fisiche. L’uno per cento sessualmente positivo ha il compito di esibirsi sul palcoscenico del locale che dà il titolo al film davanti alla platea dei negativi che non possono fare altro che guardare la messa in scena di un erotismo ormai loro negato. Guardare. Essere spettatori. Trattenere l’eccitazione. I volti di molti clienti sono simili a zombi, su altri c’è il segno dello stupore davanti allo svolgersi di quelle che sono gesta sessuali proposte come numeri d’intrattenimento cabarettistico, su altri ancora ci sarebbe il desiderio di osare un rapporto più intimo coi propri corpi, ma è impraticabile.
Tra gli ospiti fissi c’è anche una coppia, Nick e Lana. E quest’ultima nasconde la propria positività per non tradire il compagno e non doversi esibire con altri partner. Ma il suo segreto sarà svelato da uno degli zelanti “cerimonieri” e lei dovrà scegliere, e sceglierà nel climax finale immerso in un delirio onirico e grottesco che prelude alla sua performance e all’allontanamento dalla sala di Nick. Il realismo però non appartiene al film e al cinema di Sayadian. Che ambienta Café Flesh solamente nell’angusto locale (tranne un paio di scene in altri spazi, ma sempre d’interni), creando così un’unità di luogo che significa rifugio per uomini e donne dove il tempo, quello convenzionale, pare non esistere più, esserci al suo posto unicamente quello, ripetuto allo sfinimento, e puramente (meta)filmico, costituito dalla durata degli sketch, dalle azioni di chi sta sulla scena e dalle reazioni di chi guarda. Non si sa cosa ci sia oltre la porta rotonda, cilindrica come quella di una camera blindata, che si apre e chiude per accogliere e allontanare i clienti lasciando penetrare una fitta nebbia metafisica. Tutto è avvolto nel buio, che inghiotte ancora di più i corpi che, sulla linea di una separazione infine infranta (e se fosse invece una deviazione mentale, la rappresentazione pensata e non agita di un desiderio quella che Lana mette in scena? – in un film dove la cifra è quella dell’antirealismo spinto e dell’immaginazione ardita), entrano e escono dalle inquadrature. C’è un clima di soffocamento, di fumo, di saturazione, di mancanza d’aria esemplarmente resi da Sayadian anche grazie al montaggio che aumenta tale stato di cose e alla disposizione sul piccolo palco di un’infinità di oggetti necessari a moltiplicare il senso dell’assurdo generato da quanto accade perché le scene di sesso sono contornate di presenze “aliene” al contesto che non interagiscono oppure producono autisticamente dei gesti fini a se stessi.
Ma attraverso l’espediente della fantascienza post-apocalittica, Café Flesh è il ritratto lucido di un mondo all’inizio degli anni Ottanta sconvolto dalla diffusione dell’Aids e di un cinema, quello porno, che stava avviandosi a una mutazione generazionale con l’avvento del video. In tal senso, Sayadian compie anche un magnifico e commovente omaggio all’età d’oro dell’hard (come non vedere, fra le altre cose, in Café Flesh il richiamo a un altro set circoscritto dietro una porta chiusa, quello dell’immenso Behind the Green Door dei Mitchell Brothers con la divina Marylin Chambers del 1972?), mentre altri compagni di viaggio, agli albori degli anni Ottanta, dipingono gli schermi di immagini sconvolgenti, sulfuree, erotiche, terminali, grondanti umori. Dal Fassbinder di Querelle allo Slava Tsukerman di Liquid Sky (altro testo che andrebbe recuperato dall’oblio). Entrambi, anch’essi, del 1982 (anno di tante grandi opere cinematografiche).