“Prendendoci molta libertà abbiamo lavorato immergendoci completamente e dando spazio all’improvvisazione, sorprendendo noi stessi. Il film riguarda le grandi pulsioni della mia vita: fare film, l’amore, il sesso e la morte”. Con questa “dichiarazione d’intenti” Valentin Merz “introduce” il suo esordio nel lungometraggio (dopo tre corti) De noche los gatos son pardos – tra i film inseriti dalla Settimana della critica del festival di Berlino (Woche der Kritik) nel programma della sua edizione di quest’anno. Si tratta di un’opera prima spiazzante, irriverente, teorica, che ha per set principale un bosco scelto da un regista come ambientazione del film che sta girando, una “sinfonia” orgiastica e cannibale, una danza queer, un’esplosione tribale di corpi che si seducono, divorano, spariscono, dicono la verità o mentono (in realtà, i due opposti procedono intrecciati, inseparabili), muoiono, riappaiono altrove (dalla Svizzera al Messico), mentre sempre più il gioco di rimandi e di specchi si moltiplica e potrebbe durare all’infinito con i personaggi erranti in un labirinto dei sensi dove smarrirsi e cercarsi in territori concreti che si trasformano in spazi onirici, in vortici visionari evocanti anche fantasie ruiziane. C’è un che di misterioso che avvolge, fin dal titolo, questo film (e film sul farsi di un film, e quindi film sul cinema) realizzato dall’autore svizzero (nato a Zurigo nel 1985 e poi con un periodo trascorso in Messico – ecco un altro elemento biografico che sconfina nel film) che è anche uno degli interpreti, nel ruolo del regista che porta il suo stesso nome, Valentin.
Così come ogni altro attore e attrice. Ulteriore, o primaria, sovrimpressione di verità e menzogna, campo e fuori campo in una multiforme mise en abyme. Siamo immersi fin dal “prologo” nell’esplorazione degli spazi e dei corpi compiuta da Merz quando alcuni dei personaggi, ancora anonimi, sono colti in gestualità statuarie e erotiche in mezzo alla natura, sulla canzone Aline di Christophe (e canzoni pop sono seminate nel film a creare tanto legami diegetici quanto altri potenti depistaggi – tra esse Ti amo nella versione di Dalida). Merz per un po’ aderisce alla narrazione della troupe al lavoro o nelle pause delle riprese per poi accelerare lo spaesamento e creare cortocircuiti narrativi nel momento in cui Valentin (nel senso del regista del film nel film) sparisce nella foresta, invano chiamato, cercato, “invocato” da alcuni di loro. Inizia un “nuovo” film, si avvia una delirante indagine poliziesca, si innescano sospetti, fino a che il biondo regista viene trovato morto, e il suo cadavere sottratto dal fidanzato e direttore della fotografia (del film nel film e di De noche los gatos son pardos) Robin (Mognetti, già autore delle luci di un corto di Merz), con la complicità di un altro personaggio, e immolato su una pira in un (non ultimo) gesto d’amore. Le sue ceneri saranno gettate in mare da Robin che ha raggiunto il Messico e che là rimarrà abitando nuove erranze, esperienze, immaginando di ri-incontrare l’amato e infine “sostituendosi” a lui, divenendo anch’egli cadavere ritrovato in un bosco. I cerchi non si chiudono in De noche los gatos son pardos (parlato in francese, spagnolo, inglese, tedesco, svizzero tedesco). I densi cromatismi, che a tratti inscrivono le immagini in un battito carnale che le libera ri-collocandole in un spazio d’inferno e di desiderio (si pensi alla scena in discoteca, all’orgia porno-zombi, al finale), si alternano a luci più realiste. I personaggi entrano e escono dalle loro finzioni e dalle loro biografie. Ogni inquadratura è attraversata da linee geometriche che tracciano il percorso dell’improvvisazione e della rappresentazione nel quale corpi gay, lesbo, etero si incamminano selvaggi e incantati.