A dieci anni di distanza da Litigi d’amore, Kevin Costner e Mike Binder tornano a lavorare insieme in un film che sembra costruito proprio sulle corde dell’attore (che ne è anche produttore). E come Litigi d’amore (ma anche il successivo Reign Over Me) Black or White è un film sulla rappresentazione di un grumo di dolore che, lentamente, finisce per fagocitare ogni cosa. Sembra essere questo l’interesse principale dello sguardo di Binder: accostarsi a situazioni di dolore e scomporle nei gesti che si fanno via via estremi. Era così in Litigi d’amore (ma il titolo originale era The Upside of Anger), dove un macabro equivoco fa esplodere le relazioni disfunzionali di un’intera famiglia, così in Reign Over Me, dove si finisce per metabolizzare l’11 settembre attraverso gli ingrandimenti di un dolore personale, che è in realtà anche corale.
Anche in Black or White il discorso si concentra sulla perdita irrecuperabile, ma l’inizio è perentorio e di poche parole: una conversazione telefonica, il corridoio di un ospedale, il ritorno a casa di Elliot Anderson, che si ritrova solo e ubriaco e sommerso dai ricordi. La morte della moglie è l’origine della valanga che minaccia di travolgerlo: una causa legale per l’affidamento della nipote, l’accusa di razzismo, la dipendenza dall’alcool. È tradizionale e sincero questo film che rimodella il dibattito “bianchi contro neri” nella società ruvida di Los Angeles al punto da invertirlo, facendo del razzismo un semplice strumento di manipolazione, non tanto per svalutarlo, quanto per mostrare l’inefficacia di certi schematismi. Mike Binder, infatti, mette a confronto due diversi microcosmi, due diversi stili di vita e due diverse sofferenze. Le analizza e le scompone facendone un mosaico di solitudini e incomprensioni, ma lo fa mettendo sempre ogni cosa al suo posto, come a voler mettere in elenco i sentimenti affioranti via via.
Da un capo all’altro di una città imprendibile, avanti e indietro lungo un percorso che sembra obbligato e che invece limita le mille possibili sfumature. Lineare e semplice, dolcemente rassicurante, talvolta immobile e ripetitivo nella dinamica di causa ed effetto. Il fatto, poi, che si tratti di una storia vera sembra veicolare ogni cosa verso una prevedibile soluzione, perdendo di vista quelle venature di melodramma che contribuivano altrove al disequilibrio tra personaggi, realtà, storie. Tutto è contestualizzato, anche la leggerezza dei dialoghi rientra in una linea ferrea. Meglio sarebbe stato lasciar sfuggire il racconto e far scivolare i personaggi in quel delicato sistema di falsi piani che Binder ha saputo tenere in creativo equilibrio nei film precedenti.