Craig Zahler è un tipo che non le manda a dire: regista, romanziere, sceneggiatore e musicista si offre con la forza di un talento poliedrico che non pretende favoritismi, ma cerca la sostanza. Dopo l’esordio cinematografico con il western/horror Bone Tomahawk, il secondo lungometraggio chiama in causa il nume tutelare di Don Siegel (quello di Rivolta al blocco 11 nello specifico), ma più per la ruvidezza descrittiva che per la possibile denuncia sociale. Certo, il Bradley interpretato da Vince Vaughn con impressionante magnetismo è un uomo che alle spalle ha traumi molto profondi e cerca di rimanere a galla in un’America dove lo spaccio di droga sembra l’unica via possibile per ottenere il benessere altrimenti negato dal sistema. Ma, ancora una volta, Zahler non cerca forzatamente l’empatia, lascia che il protagonista se la guadagni attraverso un lavoro più circostanziato sulle sfumature, quando le stesse emergono a latere del più rude incedere della storia. Vaughn in questo senso diventa il corpo-laboratorio su cui iscrivere le emozioni che la trama chiama in causa: un personaggio durissimo e degno di un western d’annata, ma con un fondo oscuro che sembra annunciare sempre una prossima esplosione. Il lavoro compiuto sull’attore va al di là di una performance che resta comunque memorabile, perché ne chiama in causa il precipitato iconico, il percorso cinematografico che va dai vari ruoli in divisa al dualismo di Psycho (versione Van Sant, naturalmente) per regalarci un corpo stolido, ma in grado di riflettere varie possibilità a seconda delle zone d’ombra progressivamente messe in evidenza.
Proprio questo lavoro allontana in parte il film dal rischio di appiattirsi sulle classiche storie di giustizia e vendetta tipiche dell’era Cannon e di attori quali Chuck Norris e Steven Seagal. In questo senso, la violenza, sebbene grottesca e con toni da fumetto – un aspetto esaltato da un umorismo nero sempre perfettamente avvertibile – appare comunque molto fisica, asciutta negli scambi di colpi, salvo poi ripiegare nell’effetto pirotecnico solo nell’esito finale: quindi un lavoro più fuori che dentro la tipica intensità exploitation che si avvertiva in quei possibili prototipi di serie minore. I corpi collidono ma il dolore è limitato, Bradley è un imperturbabile incassatore e a causargli il maggior danno sono le scariche della cintura di costrizione . Allo stesso tempo, però, siamo lontani anche dalle ruffiane rappresentazioni alla “cane di paglia” di serie come Breaking Bad, cui pure certe situazioni e certi scenari possono rimandare: Bradley è infatti un uomo con un suo personalissimo codice d’onore, che persegue con essenzialità la sua missione – farsi spedire in una prigione di massima sicurezza per rabbonire un boss della droga cui ha mandato a monte l’ultima operazione per impedire che i suoi scagnozzi uccidessero la polizia. La posta in gioco è la vita della moglie e della figlia non ancora nata, entrambe tenute in ostaggio da un tirapiedi del sopracitato boss. Ecco quindi una narrazione che procede lineare e con un ritmo molto disteso, che supera le due ore e evita le facili trappole dell’ammiccamento emotivo. In questo senso è interessante notare come, nonostante il background da musicista e il fatto che sia anche uno dei compositori della soundtrack, Zahler ricorra poco e in modo essenziale allo sfondo musicale, per lasciare che le emozioni emergano dall’incedere dell’azione, mentre la regia cerca di illustrarle con asciuttezza. Ecco, il pregio di Brawl in Cell Block 99 è proprio questo: rimanda a parecchi possibili modelli ma non gioca la carta della cinefilia a tutti i costi, nemmeno quando sfodera le partecipazioni in odore di culto di Udo Kier e Don Johnson: al contrario cerca soltanto di portare a casa la sua storia in modo diretto, ma lasciando il giusto spazio alle sfumature. Per questo i colpi di scena non possiedono la forza del clamore oggi tanto richiesto dal pubblico, anche se il finale assesta senz’altro il pugno allo stomaco più efficace. D’altra parte – nulla è lasciato al caso – il protagonista è un ex pugile, quindi uno che capisce come l’uppercut sia essenziale per mandare l’avversario al tappeto.