Per il suo esordio Gianluca Jodice, giovane regista napoletano, avrebbe scelto di indagare attorno alla controversa figura di Gabriele D’Annunzio, negli anni in cui, la sua reputazione era in declino dopo i fasti di Fiume e, sebbene fosse considerato ancora il vate di una patria già dolorante, sicuramente solo i suoi pochi fedeli riconoscevano in lui le doti del vaticinio, il dono della parola e soprattutto il valore della sua dissidenza. Forse dovremmo proprio ragionare attorno a questo concetto per comprendere a fondo i temi che ci sono proposti nel film, che con buona messa in scena sa argomentare. D’Annunzio resta un personaggio problematico e contraddittorio. Sicuramente artefice di una lingua poetica che aspirava ad una bellezza estetica, piacevole nella sua musicalità ricercata, uomo di passioni notevoli e praticate, dalla sessualità spinta, dal focoso amore per la patria, appassionato anche nella vita politica e militare, egli stesso messosi a capo di un corpo di legionari per riconquistare Fiume. Ma anche inatteso libero pensatore, ispiratore di una costituzione, quella di Fiume, che accoglieva istanze all’epoca impensabili: voto alle donne, liberalizzazione dei costumi e delle tendenze sessuali, previdenze per i lavoratori e altre aperture simili, che gli conquistarono le simpatie di Gramsci, che aveva progettato un incontro con il poeta dopo che Lenin aveva riconosciuto il pensiero dannunziano affermando che restava sicuramente l’unico vero rivoluzionario in Italia. Il declino del poeta pescarese avvenne al suo ritorno in Italia dopo l’impresa fiumana. Ritiratosi nella villa-mausoleo-museo del Vittoriale criticò aspramente i rapporti tra Mussolini e Hitler, che divenne oggetto di epiteti offensivi e per queste ragioni messo sotto osservazione dal regime fascista, che, intanto, stringeva rapporti sempre più stretti con il ridicolo Nibelungo.
È in questa parte della storia che si inserisce il film di Jodice, ma è anche in questa fase della vicenda umana dannunziana che emerge forte e deciso il tema della dissidenza del poeta con il regime che lo aveva osannato. È qui, inoltre, che si insedia la figura di Giovanni Cumini, giovane federale bresciano incaricato da Starace di porre sotto assiduo controllo D’Annunzio. La frequentazione del poeta, le confessioni che l’anziano D’Annunzio consegna al giovane Cumini aprono nuove prospettive e segnano i primi dubbi nella ferrea volontaria obbedienza del graduato. Cumini trascorrerà molto tempo al Vittoriale, con la piccola corte di conviventi del poeta, residui di altri tempi, di follie sessuali, di una dissolutezza ricercata di cui la stessa dimora diventa testimone con i suoi broccati e le sue ricchezze artistiche disseminate tra i corridoi. Ma sono i colloqui con D’Annunzio a fare riscoprire al giovane un’altra verità, un’altra prospettiva rispetto a quella di Starace e dei suoi accoliti. D’Annunzio parla, sa chi è Cumini e perché frequenta casa sua, ma si fida, come un maestro si fida del suo allievo migliore. Progressivamente il federale svolgerà il suo incarico con maggiore partecipazione, smettendo però i panni di strumento di regime, anzi violando le consegne o comunque scegliendo di decidere in proprio i comportamenti da adottare. Cumini coglie i segnali che gli arrivano e con la sua muta dissidenza apre crepe sempre più profonde nella sua, apparentemente incrollabile, fede fascista.
Il cattivo poeta potremmo dire che fa rima con cattivo maestro e non vi è dubbio che l’aggettivo costituisca un preciso riferimento a quel tipo di didattica, più o meno diretta che diventa formativa (di volta in volta positivamente o negativamente) per le giovani generazioni. La storia è piena di “cattivi maestri”, anche di quelli convertibili in “buoni maestri”, che hanno ispirato rivoluzioni buone e cattive e che hanno dato vita a periodi bui o luminosi della storia. Jodice dunque, mette al centro della vicenda Gabriele D’Annunzio, ma è il percorso esistenziale e progressivamente dubbioso di Cumini che lo interessa. Il cattivo poeta smette, dunque, di essere un film meramente biografico, con sullo sfondo un complesso scenario storico, per diventare un film sul dubbio, sulla sua graduale insinuazione capace di mutare le proprie convinzioni e la propria vita. Il giovane attore Francesco Patanè qui per la prima volta in un ruolo non solo impegnativo per le sfumature che deve conferire al suo federale, ma anche per il ruolo di comprimario che assolve restando quasi sempre sulla scena, supera con eleganza la prova, rendendo il senso delle perplessità che lo assaliranno dopo i colloqui con l’anziano poeta. È proprio il rapporto che si crea tra questi due personaggi distanti anche anagraficamente a costituire lo snodo del film, a diventare chiave di lettura della vicenda. Non si tratta tanto di influenza sul pensiero del giovane rappresentante del regime, quanto, invece di quella comprensione delle altrui ragioni che proviene dall’ascolto dell’altro. Il cattivo poeta diventa quindi un film di formazione, un racconto di cui oggi forse c’è bisogno in un mondo di relazioni solitarie, in un’epoca di soliloqui da tastiera. Jodice chiama alla fotografia Daniele Ciprì e il lavoro del fotografo siciliano si vede tutto nei toni smorzati di un’epoca crepuscolare. Castellitto sa dare un’altra prova delle sue capacità d’attore e senza mangiare la scena, impone la sua presenza. Una particolare attenzione merita il lavoro sui costumi dell’epoca curati nei dettagli e altro punto di forza dell’intera operazione.