Ecco dove avrebbe voluto trovare casa, perché lì la Sanità sa come da nessun’altra parte di ventre materno, primogenitura, principio di un lunghissimo passato mai passato, silenzio e tumulto di un fuoco che continua a covare sotto la cenere.
Da Nostalgia, di Ermanno Rea
Mario Martone torna a scandagliare il cuore tumultuoso e segreto di Napoli. Sembra di essere tornati ai tempi de L’amore molesto tanto questo film, nel Concorso di Cannes 75, sembra riguardare, come quello, quei legami profondi che il regista intrattiene con la sua città. Legami quasi inesprimibili mai interrotti, caso mai allentati in quello sguardo da lontano che Mario Martone ha adottato verso Napoli nei suoi ultimi film. Da Il sindaco del rione Sanità a Qui rido io, l’occhio su Napoli è andato dalla ricerca di una attualità della scrittura che se ne è fatta nel passato, alla ricerca di una radice culturale e comune, che possa interpretare l’immagine odierna della metropoli nella quale riconoscersi incondizionatamente e senza incertezze. Una radice culturale che resta l’unica possibile in una città che muta, divora e si fa divorare. È così che anche la figura di Scarpetta, nel bene e nel male autentico interprete di una innata teatralità che si fa canone di quotidiana pratica, diventa lo specchio dentro il quale ci si può riconoscere in una quasi stridente contrapposizione con la scrittura più dolorosa del figlio illegittimo sempre dentro lo spazio di un palcoscenico che perpetua l’ininterrotta e fluida verità, che in equilibrio tra bene e male, tra crimine e mistica della redenzione, appartiene ad un’anima partenopea che Martone continua a cercare. Non può il regista, o meglio, sembra non possa, ritrovare altrove quel senso di appartenenza alla Napoli conosciuta e amata se non attraverso le parole e i racconti degli stessi scrittori napoletani. In cerca di parole e immagini di verità, Martone, con una strategia di cui ora ci appare chiaro il contorno sin dai suoi esordi cinematografici con quel Morte di matematico napoletano, con il quale ha anche provato a ritrarre una Napoli diversa da ogni cliché, una nuova mappa della città, lavorando sulla storia del suo personaggio e sul presente, cominciando a restituire alla città, con il suo cinema, quello che era suo, secondo una regola che non smette di essere vera solo perché la malavita se ne è appropriata.
Restituire a Napoli il suo è restituirgli la storia che sa anche immaginare l’utopia e il riparo in quell’ambiguo, ma protettivo, ventre oscuro tra storie di morti che guidano le vicende dei vivi e una profonda oscurità dentro la quale si consumano amori torbidi, nostalgie inattuali, legami profondi e non eliminabili. Martone per dare sfogo a questo tumulto scandaglia, dunque, la sua città alla ricerca di possibili verità e trova in Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) un personaggio perfetto per sperimentare quel tormento del ritorno dopo anni di volontaria lontananza da Napoli. Capiremo durante la narrazione perché Felice ha diviso la sua vita tra il Libano e l’Egitto, trovando un’America laddove sembra impossibile trovarla. Ma 45 anni sono sufficienti per fare maturare la voglia di un ritorno faticoso, volto a risarcire i sentimenti negati alla madre ormai invecchiata. Un desiderio che sembra trovare spunto nell’altro desiderio di dare volto ad un’amicizia interrotta con quell’Oreste Spasiano (Tommaso Ragno) con il quale il quindicenne Felice sembrava doversi dividere il mondo e con il quale oggi diventa faticoso condividere anche un sorriso. Felice è un personaggio lontano ed è nella progressione del racconto che riacquista l’identità perduta, riappropriandosi – anche lui – di quello che è suo, compresa la comprensione di una violenza che si fa legge del dominio dei labirinti sconosciuti del rione Sanità, che diventa, nel racconto, vero ventre originario di una città a tratti misteriosa e profonda, che trova nelle cupe catacombe il suo rapporto antico con i morti e nei suoi vicoli il suo rapporto attuale la morte come imposizione e manifestazione di dominio. Felice Lasco è così quasi lo psicopompo che guida l’anima del suo vivo creatore dentro questo sempre presente cuore di tenebra di una città che resta in bilico tra una mutazione incessante – il Centro direzionale ipotesi di una modernità mai decollata – e i meandri di quella Napoli invisibile, mitica e inaccessibile. Napoli diventa così un labirinto quasi mobile, di vicoli dentro i quali le ombre dei vivi alla ricerca della altrui morte, si aggirano confusi e in quella tenebra avvolgente, ambiente adatto ai già morti alla vita come Oreste che si muove agile e quasi immateriale per distribuire la sua legge di O’ Malomm.
Nostalgia intreccia, dunque, i temi di un passato incancellabile che determina come in una nemesi sempre incombente il senso del presente. Con il tratto dello sguardo di Martone a dominare con le sue immagini forse mai così efficaci, e a descrivere il senso dei luoghi. Immagini dentro le quali sembrano aprirsi non solo gli interrogativi del presente, ma anche la possibile efficacia delle soluzioni volte a mutare regole arcaiche nel cui riconoscimento si avvera quell’appartenenza dalla quale Lasco, ormai è escluso. Lui, non conosce più quella disciplina e dal prete al camorrista che parlano la stessa lingua con finalità diverse, ma si capiscono, non ottiene che il “Vattenne!”, vattene, vai via, scompari. Felice Lasco è un corpo estraneo, è il perturbante che arriva dal passato, è depositario di segreti e non conosce le nuove regole ed è per questo che va espulso da un sistema che non lo riconosce come proprio, non ne riconosce l’appartenenza, nonostante i suoi sforzi. Le regole sono molto più profonde di quelle che il neofita Lasco crede nel suo ingenuo atteggiamento dettato dalla semplice nostalgia e non basta un bicchiere di vino o il ritorno ad un dialetto sedimentato a farlo tornare napoletano. Le regole, come la città mutano e il loro rispetto diventa incomprensibile se non si comprende, come Felice non comprende, questo mutamento. Il film di Martone sembra, malinconicamente, ripiegarsi su stesso in questo tramonto di valori, dall’amicizia, alla solidarietà e in questo perdersi, come la frase di Pasolini che apre il film (la conoscenza è nella nostalgia: chi non si perde non possiede). Mai frase più vera per Felice Lasco, che solo nel suo definitivo perdersi impara a ri-possedere la sua Napoli nella quale vuole tornare. Facendo vero quel desiderio che anche la musica ci ha raccontato, anticipando questi racconti, con le parole semplici, ma altrettanto semplicemente vere in quella Voglia ‘e turnà/Dint’e vicoli e sta città, nonostante Napule è mille paure.