Nel cinema di Teresa Villaverde il presente è sempre un tempo imperfetto, insufficiente, sbagliato. E’ come se le coordinate date ai suoi protagonisti non corrispondessero a un luogo e a uno spazio adatto alla loro esistenza, costringendoli a spingersi in bolle indipendenti, fatte perlopiù di solitudine, astrazione, incompiutezza. In Colo, il suo nuovo film in Concorso alla Berlinale 67, il presente è del resto un tempo imperfetto anche in senso letterale, il non luogo di una crisi che è economica e storica, individuale e sociale: Lisbona oggi, il Tago che lambisce una città che pare un fantasma, quartieri di periferia, anonimi caseggiati, un appartamento in cui vive un padre in crisi perché da tempo disoccupato, una madre che regge un doppio lavoro per sopperire al bisogno, una figlia che oscilla tra la casa alla deriva, il fidanzato musicista con cui non fila tutto liscio, la noia della scuola e un’amica che s’è scoperta incinta. Le figure in campo sono queste, raccolte dalla Villaverde nello spazio quasi irreale di un mondo anestetizzato, sonnambolico: la dominante cromatica è calda, soprattutto negli interni, la luminosità soffusa persino negli esterni, che diventano quasi trasparenti, indecifrabili, via via spinti verso una dimensione astratta.
Quando la madre perderà uno dei due lavori, il nucleo perde la coesione e ogni personaggio va per la sua strada, secondo un processo che è prassi nel cinema di Teresa Villaverde, portato sempre a spingere alla deriva i suoi protagonisti, liberarli in un mondo oscuro e fabuloso, intinto nell’ombra, più angosciante che minacciosa, di una realtà difficilmente decifrabile. La regressione si tinge della penombra domestica a luce di candela imposta dalle bollette arretrate, l’appartamento non è più sostenibile e la madre va a vivere da una collega, spingendo figlia e marito in campagna, a casa della nonna. Intanto l’amica incinta sembra sempre più prendere il posto della figlia, che si perde nella città, e finisce a vivere in un capanno sul fiume. E’ un processo di dissoluzione simbolico che per la Villaverde ha la potenza arcaica di una fiaba senza soluzione. Quasi un ritorno alla natura che astrae il tempo della vita sociale in un luogo in transito tra lo spazio psicologico e quello sentimentale. Colo è un film durissimo, magari anche imperfetto (la prima parte troppo lunga, come spesso accade nel cinema della regista), ma che si connota come un tracciato critico senza vie d’uscita. Il finale è liricamente drammatico, nella sua essenzialità potentissima: il capanno sul fiume, una lenta carrellata avanti e poi indietro, la musica di Sostakovic che marca il tempo. Non c’è scampo, siamo in un mondo che è in guerra, come dice la madre alla figlia, e le vittime sono gli innocenti. Teresa Villaverde conferma le qualità tutte introflesse del suo cinema e anzi Colo, che pure non raggiunge la cupezza disperata di Transe, ha la pregnanza dei suoi primissimi film (A idade maior e Tres irmaos), la stessa cifra da fiaba contemporanea intrisa di amarezza, ribaltata però nella nettezza del tratto narrativo, imposta dalla natura anche “politica” di ciò che racconta.