Dal carrarmato di Lebanon al check-point di Foxtrot : Samuel Maoz la guerra se la porta dentro e per questo suo secondo film, che giunge a sette anni di distanza dall’opera prima leonizzata a Venezia nel 2009, ribalta l’orrore e la morte dal fronte dei carristi alle pareti domestiche di una famiglia. Sostanzialmente Fixtrot è una danza in tre atti scritta sull’annuncio di morte che giunge alla famiglia del soldato Jonathan dal fronte della guerra perenne combattuta da Israele: quando i militari bussano alla porta di Michael e Dafna per comunicare il decesso del figlio, il mondo crolla addosso ai due. La prassi militare prevede la presa in carico dell’assistenza ai familiari affranti e delle esequie al commilitone estinto sul fronte, ma Michael implode nel suo dolore represso, cerca una ragione nella resistenza solitaria, si sfoga crudelmente col cane di casa, vorrebbe allontanare tutti. E Maoz gestisce la messa in scena di questa prima parte con la geometria dell’urto, scandendo i suoni dell’impatto tremendo, scandagliando i dettagli dei volti e i particolari dello spazio, degli oggetti in campo. Poi però gli stessi militari rettificano la disperazione in speranza, il lutto in salvezza: l’omonimia con un altro soldato Jonathan morto sul campo trasforma il caso in miracolo, ma Michael, che è ateo, pretende la prova e impone che il figlio sia immediatamente fatto tornare. E allora Maoz innesca il secondo movimento del film, spingendosi al confine estremo della civiltà, in quel nulla astratto che è il fronte, in quello snodo tra guerra e pace, militari e civili, che è il check-point dove Jonathan presta servizio. Ed è tutta una danza che sembra uscita da un film di Suleiman, ironica, surreale, altamente grafica nelle sfumature ocra delle coloriture terragne di fango e polvere.
Il tempo sospeso dei soldati è una nuvola di irrazionalità destinata ad esplodere, ancora una volta, per il caso di un gesto malinteso. Tragedia buffa da insabbiare per prassi militare, mentre Jonathan elabora il suo senso di colpa nel ricordo di una colpa paterna legata a un fumetto erotico scambiato con una bibbia di famiglia, il tutto disegnato dal ragazzo nelle tavole di un fumetto che Maoz anima sullo schermo. Uno stacco e siamo nel terzo movimento: rarefazione quasi teatrale, ad alta densità drammaturgica, per ritrovare Michael e Dafna nel chiuso della loro casa, ancora stretti nel loro dolore, a celebrare in assenza di Jonathan il suo compleanno, facendo i conti con un destino che è ricaduto comunque e sempre sull’agnello sacrificale delle colpe del padre. Ecco, Foxtrot è uno di quei film che non lasciano scampo ai loro personaggi, esattamente come non lasciano respiro alla pulsione narrativa, imbrigliandola in un progetto visivo occlusivo, stringendosi attorno al teorema filmico che assumono a ragione d’essere. L’inversione dello spazio introiettivo offerto in Lebanon dall’interno del carrarmato, nello spazio virtuale della narrazione morale assunta qui, produce un senso di oppressione che grava sullo spettatore. Foxtrot è uno di quei film che capisci, ma non riesci a digerire esteticamente. Rifugge dalla pietà per partito preso, senza l’ombra di una umanità che renda il vissuto filmico vibrante, empatico. Aderisce perfettamente all’ottusità del suo protagonista, alla condanna che emette per se stesso, senza ammettere alternative alla colpa che si porta dentro. Politicamente ha un valore molto forte, ma lo tiene chiuso nel pensiero di una narrazione di sé metaforica. Maoz del resto lo dice, candidamente: non mi sono concentrato sugli eventi, ma sull’idea filosofica. Solo che i film non si fanno con le idee filosofiche, ma con la vita. O con la morte. Ma comunque si fanno, non si pensano…