Hold the Dark, l’oscurità trattienila, non si sa mai. Alaska: in una piccola comunità mista di bianchi e nativi di origine Inuit scompaiono tre bambini, rapiti dai lupi, dicono. Il villaggio si chiama Keelut come il demone-cane della tradizione indigena. La mamma di uno dei tre piccoli, Medora (Riley Keough), arruola un etologo in pensione affinché dia la caccia alle belve. Vernon (Alexander Skarsgård), il papà del bambino, militare in Iraq (prima di fare l’attore Skarsgård era in un’unità antiterrorismo dell’esercito svedese, non finge), dà intanto prova di coraggio sul campo di battaglia ma non sembra troppo a posto con la testa. Succede qualcosa, e i cadaveri si moltiplicano. Non vi diciamo altro, il film va visto, anche per confrontarsi con una trama oscura nei meandri della quale rischiamo di perdere un po’ di senso, come alcuni protagonisti il senno. Regista interessante Jeremy Saulnier, che lavora sempre con lo sceneggiatore Macon Blair, suo amico d’infanzia nonché interprete dei “loro” titoli precedenti Blue Ruin e Green Room. Soggetto dal romanzo omonimo di William Giraldi, una storia trucidissima e misteriosa per la quale Saulnier e Blair non disdegnano atmosfere soprannaturali, sulla linea di margine delle superstizioni indiane (la vecchia squaw vede subito nella direzione giusta, mentre l’etologo-scienziato continua a brancolare nel buio). Ma è la condizione post-umana a spingere il film in una dimensione irrazionale, la ferocia è dell’uomo al di là di qualunque logica, c’è poco da dire altrimenti.
In una specie di western-horror che gioca con tutti gli archetipi fiabeschi (vedi la maschera: certo che il lupo è cattivo, ma cammina su due zampe, tira le frecce, preme il grilletto) Saulnier aderisce allo sguardo dell’etologo interpretato da Jeffrey Wright (che ha sostituito Morgan Freeman scelto in precedenza), uno che preferisce le bestie non fidandosi dei propri simili, e torna a riflettere sul cuore nero della cultura contrapposta alla natura, feroce e famelica sì ma senza colpa, senza dolo, senza follia. Nell’oscurità di questo film così affascinante la violenza accade implacabile e inevitabile perché tutti hanno le armi e con le armi uccidono. A un certo punto c’è una sparatoria di otto minuti, forse non nitida e “plastica”, à la Michael Mann, come quella di I segreti di Wind River di Taylor Sheridan, ma più assurda; è qualcosa che succede e basta come la brutalità gratuita di Chigurh in Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy. Non te la spieghi più di tanto e se l’accetti sei definitivamente entrato nel medesimo paesaggio post-umano dei protagonisti di queste storie. Hold the Dark e Wind River “si parlano”, sono facce di una medaglia simile, mi piace parecchio il loro forte rapporto con la pagina scritta nonostante siano cinematograficamente così connotati, fino alla stilizzazione. Il cinema Usa è sempre più povero di idee, sempre meno interessante ma quando ci sono eccezioni come queste (o come Dragged Across Concrete di S. Craig Zahler) ci si riconcilia con la settima arte. Stavo per scrivere “con il grande schermo” ma ahimè non è così. Hold the Dark ha il marchio Netflix e si può vedere solo su quello piccolo (salvo qualche uscita tecnica in sala limitata però agli Stati Uniti). La battaglia di retroguardia contro la piattaforma streaming non mi appartiene, ma devo dire che ho un po’ sofferto nel cercare il segreto luminoso di questa oscurità su un 32 pollici limitato e limitante.