El paraiso: le anime inquiete di Enrico Maria Artale

Film allegro e tragico, di ritmi latinoamericani ma immerso nelle acque torbide della foce del Tevere, El paraiso possiede un’identità insolita per il nostro cinema italiano, incalcolabile, privo di un’etichetta proprio come i suoi personaggi liminali: il quarantenne Julio Cesar (un Edoardo Pesce nostalgico e generoso, sempre impegnato a mantenere alta un’espressività in bilico tra tenero e patetico) e sua madre (Margarita Rosa De Francisco), sessantenne colombiana, estroversa, amante della danza e dell’eccesso, imprendibile. Entrambi inarginabili, paradossalmente vivono chiusi dentro una casa fuori dal mondo, sospesa e fragile come le loro anime inquiete, arricchita di tante cose polverose provenienti da un tempo lontano, che sono collocate lì per assorbire un vuoto più grande, incomprensibile e innominabile: una casa-mondo che esprime vivacità emotiva, sensualità ma anche angoscia e disperazione, palcoscenico di un rapporto morboso, squilibrato, senza regole che induce e genera una frattura disagiante per l’occhio di chi guarda pronto a giudicare, una scheggia che si infila e urtica, preme, disturba.

 

 
Film di grandi emozioni, sorprendente per come si prende cura dei propri personaggi, innesca e scioglie la tensione, per quanto tenga a fare luce sulla scena di un figlio e di sua madre, avvolti da lunghe ombre, El paraiso si colloca sul crinale di quel sottilissimo equilibrio già precario del loro rapporto opprimente e amorevole messo in crisi dall’arrivo di Ines (Maria Del Rosario), giovane e bella ragazza colombiana reduce dal suo primo viaggio come “mula” della cocaina per conto dello spacciatore Lucio (Gabriel Montesi). Quando la situazione precipita irrimediabilmente a causa di un azzardo andato a finire male, Julio Cesar (nome omen?) si troverà a compiere un gesto estremo che lo porterà a fare i conti con le proprie origini. Dopo una lunga parantesi nella fiction (Sanctuary, Romulus, Django, Un Prophete), Artale torna al lungometraggio di finzione (esordì con l’apprezzato Il terzo tempo) con questa anomala storia d’amore che entra nelle viscere (psicoanalitiche?) del rapporto madre-figlio, personaggi di un racconto mitologico che assume i tratti di una tragedia costellata da sfumature cangianti, colori acidi, forme ibride che rivelano le parti più profonde della loro esposta umanità tanto alla delicatezza quanto alla violenza. Basato su sangue e contraddizioni, possesso e gelosia quello portato in scena da Artale, più che incentrarsi sulle dinamiche della malavita, è un legame che tenta di svincolarsi dal giudizio, senza voler stabilire se ciò che unisce profondamente i due protagonisti, come dichiarato dal regista, «sia un atto d’amore, che si spinge oltre le convenzioni sociali, o un atto psichico disfunzionale che dimostra l’impossibilità di accettare una naturale separazione».

 

 
Film di contrasti e allucinazioni, di suoni caldi e vento freddo, di luoghi caotici e respingenti che restituiscono il disagio e la natura periferica dei due personaggi, non solo la marginalità della foce del Tevere in cui si svolge l’azione, assume il titolo tanto dal nome dell’imbarcazione di Julio quanto dalla presunta località colombiana in cui è nata la madre, facendo emergere l’amara considerazione di un eterno fallimento, una condizione desiderata e inevitabilmente mancata. Artale traduce questa complessità attraverso una materialità mai celata senza cadere nell’esibizionismo di facciata. E tutto trova la sua sintesi nella narrazione di un corpo che è sempre in movimento e alla ricerca della sua dimensione ideale: malato, contuso, esposto, consumato, segnato, tatuato, sformato, flaccido, gonfio, incenerito, truccato, tinto, scottato, nudo, gravido in continua lotta tra mantenimento e trasformazione, desolazione e solitudine, senso di abbandono e appartenenza, costrizione e libertà. El paraiso è speranza e illusione come suggerisce l’ultima folgorante inquadratura. Un film di sguardi desiderosi di trovare una corrispondenza, un luogo dove sentirsi al sicuro.