Napoli gotica, edificio concreto e immaginario di spettri, di case possedute, di giardini incantati da presenze e assenze misteriose. Se la immagina così Ferzan Özpetek, come uno specchio oscuro incrinato sotto il peso dell’immaginario contraddittorio della metropoli meridiana: ombrosa e solare, vitale e funerea, nobile e sguaiata, misera e opulenta. Il chiaroscuro napoletano emerge dall’idea di una Napoli velata che, come il celebre Cristo del Sanmartino, sotto il velo mostra ancor di più il suo vero volto. È sempre il gioco lasco tra realtà e immaginazione, costruito sull’evidenza dell’assenza, quello che l’Özpetek meno solare (e commediale) mette in scena per rivelare la verità dei suoi protagonisti: non siamo poi tanto distanti dalle Fate ignoranti, ancora un percorso nel lutto di una perdita inattesa, che spinge una donna alla più profonda scoperta di sé nell’assenza dell’altro, svelandone il mistero, violandone i luoghi, tastandone la memoria. Il breve incontro tra Adriana e Andrea nasce attorno al letto del finto parto di un femminiello (che ha Peppe Barra per levatrice scenica) e muore davanti al tavolo autoptico sul quale la donna, medico legale, si ritrova il cadavere dell’uomo che ha appassionatamente amato per una sola notte. Il mistero si addensa sul suo dolore, indagato dalla polizia, contemplato da amiche e prefiche, vissuto da Adriana come un’ossessione che si incarna nell’ambigua figura di Luca, fratello gemello del defunto, che la donna vede e insegue come un fantasma per le vie di Napoli e infine nasconde nel chiaroscuro della sua casa.
La coltre misteriosa che la sceneggiatura di Gianni Romoli e Valia Santella diffonde sulla femminilità turbata della protagonista, è lo spiraglio attraverso il quale la verità della città si offre allo sguardo del regista: gronda passioni, pulsioni, antichi rituali divinatori, palazzi nobiliari, androni popolari, vicoli e salotti, in un intarsio contraddittorio che ben si adatta ai vissuti dell’Özpetek più chiaroscurale. Che spinge sul pedale del mistero sino a raggiungere venature alla Dario Argento, senza mai smettere di pensare al Rossellini di “Viaggio in Italia” (con molto più pudore dell’insostenibile Cuore sacro…) o, sul versante letterario, al Malaparte de La pelle. Özpetek è autore che suscita funerei drammi con la stessa facilità con cui intesse commedie liberatorie, giocando in controbattuta tra istinto di fuga e soggiacenza al destino. In Napoli velata applica la viscosità culturale del suo sguardo, sempre intimo e curioso, al culto dell’identità cangiante, che appartiene alla sua poetica tanto quanto all’immagine partenopea di cui si nutre. Sovrappone lo spazio ai corpi, la città ai personaggi, Napoli ad Adriana e ad Andrea e a tutte le altre figure che animano questo mystery fantasmatico. La smaterializzazione del corpo è l’istanza primaria di un film che sulla virulenza ad un tempo salvifica e mortuaria della sessualità torna a riflettere (non è certo traccia secondaria in Özpetek), esattamente come la materializzazione di Napoli è il vissuto filmico più netto di un’opera che di sicuro tradisce più le figure che lo sfondo. In Napoli velata viene a mancare proprio quell’osmosi tra le stratificazioni di luoghi, corpi, epoche, identità che in altri tempi nutriva opere come Il bagno turco e Harem Suaré. Il film affascina e intriga, ma nella seconda parte, proprio quando dovrebbe tirare le fila, si siede su una coralità che non trova mai l’ensemble: il mistero non si impossessa mai davvero della scena, lasciando piuttosto campo alle torsioni psicologiche della protagonista, che purtroppo non trova in Giovanna Mezzogiorno un’interprete capace di recitare in trasparenza come dovrebbe. Del resto Alessandro Borghi si offre al doppio ruolo di Andrea/Luca con gioco troppo manicheo e un po’ tutto il parterre di attrici (Bonaiuto, Sastri, Ferrari) corrisponde all’impostazione troppo schematica trovata, nonostante le migliori intenzioni, dal regista.