Un po’ come il suo protagonista Pietro, nascosto in un’intercapedine creata per continuare a vivere in segreto nella casa da cui è stato sfrattato, così anche Lorenzo Bianchini sembrava essersi “nascosto” dal cinema dopo un lungo periodo di produzioni indipendenti e più costanti: nei sei anni trascorsi dal precedente Across the River – Oltre il guado, infatti, l’autore friulano aveva realizzato principalmente la webserie Sidera, e ora torna al formato del lungometraggio, forte di una dimensione produttiva più tradizionale, con Raicinema e Tucker Film che tengono a battesimo questo suo sesto lavoro, presentato in anteprima mondiale al 39° Torino Film Festival, in chiusura della sezione Le stanze di Rol. Più ambizioso è anche il reparto tecnico/artistico, con la fotografia affidata all’herzoghiano Peter Zeitlinger, mentre il ruolo del già citato Pietro va al francese Pierre Richard. La scelta di un attore tradizionalmente associato maggiormente alla commedia (viene in mente il celebre La capra) è già una dichiarazione d’intenti per un regista che, formatosi con l’horror, ha comunque cercato di esplorare le sfumature dei generi a più largo raggio, senza cercare soluzioni scontate, a volte lavorando in controbattuta rispetto alle aspettative del suo pubblico. In questo senso si inserisce anche il lavoro sulla lingua, dal friulano di Radice quadrata di tre e Custodes Bestiae allo sloveno di Oltre il guado, qui ribaltato nel silenzio quasi costante con cui Pietro vive gli spazi della casa, inizialmente vuota e poi occupata da una madre con la figlioletta.
Pochissimi i dialoghi, che escludono in maniera pressoché totale il protagonista, e una costruzione visiva che cerca di occupare il set attraverso la mobilità di un uomo anziano che si rannicchia, nasconde, striscia sui pavimenti, si nasconde sotto i letti, quasi si fosse nel sorprendente El habitante incierto di Guillem Morales, film che non a caso trasformava ogni angolo dell’abitazione in un piccolo set agitato da possibili presenze, dove lo spazio si allargava e restringeva a seconda delle esigenze espressive. Lo stesso accade in questo L’angelo dei muri, dove Pietro intraprende un rapporto a distanza con la piccola Sanya, afflitta da una malattia degenerativa agli occhi, ma che per prima percepisce comunque la presenza di quel misterioso protettore nascosto dietro i muri. Lavorando sul ribaltamento sensoriale (personaggi che non si vedono e non si parlano ma si relazionano empaticamente), Bianchini può così scomporre progressivamente il racconto, traghettandolo da possibile thriller d’atmosfera alla Balaguerò (si pensi a Bed Time) a racconto fiabesco, film di fantasmi delicatamente attento ai sentimenti inespressi e alle occasioni perdute, fino all’ennesimo ribaltamento finale. Il film in questo modo colpisce per il suo piacere della messinscena pura, in cui a predominare sono i corpi attoriali e l’estrema e continua mobilità della macchina da presa all’interno della casa-personaggio. Applicando questo metodo al lavoro sulle sfumature umane di protagonisti tratteggiati con poco, ma capaci di esprimere un forte precipitato emotivo, Bianchini rinnova quindi il suo piacere per storie orientate al progressivo svelamento di segreti. Un po’ come accade con questo suo protagonista che si è auto condannato a non vivere, seppellendosi nella sua casa-rifugio, ma che in realtà ha tutta una storia i cui contorni vengono svelati progressivamente. E che in questo modo saprà trasformare un film apparentemente “piccolo” e intimo in un dramma forte e capace di creare un efficace sostrato emotivo in grado di catturare lo spettatore.