FilmmakerFest: L’America in miniatura di James Benning in Little Boy

The house that James built: le mani di Benning lavorano sull’assemblaggio di tipiche case della tradizione americana, le dipinge mentre ascoltiamo brani musicali che risuonano di memoria identitaria popolare e poi ce le mostra finite, in un piano ravvicinato che astrae lo spazio e il tempo della visione. Intanto ascoltiamo ogni volta un discorso che, da Eisenhower in poi traccia una mappatura delle disfunzioni della coscienza civile americana. Siamo in Little Boy (Premio FillmakerFest 2025), il nuovo lavoro in cui Bennnig disarticola i piani sequenza con cui la sua filmografia ha definito una vera e propria cartografia sui piani d’ascolto della linea dell’orizzonte visivo americano. L’implosione della realtà nella sua riproduzione miniaturizzata nei modellini di case è il gioco semantico su cui il grande filmmaker americano ritrova la prassi applicata quarant’anni fa ad American Dreams: Lost and Found, dove la sua collezione dedicata alla leggenda del baseball Hank Aaron si offriva come tessitura visiva. La smaterializzazione del paesaggio esposto nella sua miniaturizzazione plastica è il gioco concettuale di un’operazione che poi infrange il silenzio tipico dell’elegia benningsiana, tutta basata sull’osservazione e sulla posa in opera del tempo.

In Little Boy l’argomentare dei celebri discorsi esposti nella loro durata esclusivamente sonora dialoga con il verseggiare pop di canzoni che lavorano la nostra percezione mnemonica, il nostro ricordare acustico. La funzionalità del film è didascalica nel suo dispositivo basico, fondato sul contenuto sociale dei discorsi, ma il film mostra una pregnanza radicale con un discorso che parte dal Tempo e osserva la Storia: l’incipit sul modellino del T-Rex fossile giocato con la didascalia iniziale 81.000.000 di anni fa e il tappeto sonoro ambientale (la natura e il ruggito del sauro…) crea un cortocircuito di vita reale distante nel tempo che permette di accedere con una significazione ben precisa al dispositivo su cui il film poi si basa. Che è tutto costruito sulla dimensione astratta della realtà (miniaturizzata) e dell’archivio sonoro (le canzoni e i discorsi): si parte dal 1961 di Ricky Nelson (“It’s late, it’s late/We gotta get on home/It’slate, it’s late/We’ve been gone too long/Too bad, too bad/We shoulda checked our time”…) e dal discorso di saluto del Presidente uscente degli Stati Uniti Eisenhower (“Like every other citizen, I wish the new President, and all who will labor with him, Godspeed. I pray that the coming years will be blessed with peace and prosperity for all”) e nel finale si risale al 1945 del discorso in cui Truman annuncia l’uso della bomba atomica su Hiroshima (“We are now prepared to obliterate more rapidly and completely every productive enterprise the Japanese have above ground in any city”). Quella proposta da Benning in Little Boy è un’archeologia delle istanze funzionali di un paese come l’America in conflitto tra l’immaginario miniaturizzato del Tempo e la realtà cristallizzata della Storia. L’annullamento del paesaggio reale nella scala ridotta delle case e degli oggetti di plastica, l’implosione della sonorità del senso nel gracchiare delle vecchie registrazioni e la coreutica offerta dalla musica pop creano per questo suo ultimo film una dimensionalità paralizzata, ad un tempo ironica e disperata.

 

James Benning su  Little Boy al Lincoln Center