Tra memoria e invenzione, storia e immaginazione, nel segno del verosimile più che del vero. In questo territorio liminale (molto aderente alla natura stessa del cinema) si colloca Duse, uno dei cinque film italiani in competizione a Venezia82. Lo ha diretto Pietro Marcello, che da autore è abituato a muoversi proprio in una zona di confine, dove le immagini d’archivio – fondamentali per un principio di carriera all’insegna del documentario – continuano a giocare un ruolo decisivo anche ora che frequenta maggiormente la fiction. A dispetto del titolo, laconicamente circoscritto al solo cognome di un’icona del teatro tra Ottocento e Novecento, appunto Eleonora Duse (1858-1924), non siamo di fronte un biopic in senso stretto, quanto piuttosto a una modalità molto contemporanea di affrontare una biografia attraverso il cinema, con un percorso che punta sulla suggestione per una connessione profonda con il personaggio indagato, sia pure a discapito di una conoscenza più ampia e precisa. Marcello ci porta dentro la vita di Eleonora Duse quando ella si è ritirata dalle scene da ormai un decennio.

La Grande Guerra è agli sgoccioli e l’attrice si presta a fare da madrina negli accampamenti dove soldati stremati, provenienti perlopiù da contesti poveri e poco acculturati, forse non conoscono la divina, ma ne percepiscono comunque l’aura magnetica, come quando sussurra (parlando soprattutto a sé stessa) che “l’arte può salvarci”. È ancora animata da un’ardente fiamma interiore, ma è una donna fragile, dalla salute incerta (minata da una malattia subdola come la tubercolosi), che la induce a trattenere gli slanci artistici. Quando decide di tornare davvero sulle scene, è infatti la necessità a darle la spinta decisiva: la banca tedesca nella quale aveva depositato i soldi guadagnati nella professione è fallita, non resta che tornare in pista per ridare linfa alle dissestate finanze. Ecco allora che Eleonora ricostituisce la sua compagnia e va nuovamente in scena, affidandosi ad antiche certezze, optando per l’amato Ibsen e per un rodato compagno d’avventure come Ermete Zacconi. Sebbene la rentrée si riveli da subito un successo, la collega-rivale Sarah Bernhardt le fa notare come il mondo sia andato avanti e questo tipo di teatro non lo rappresenti più compiutamente. Per cui la Duse, colpita, cambia strada e concede una chance (sprecata) all’aspirante drammaturgo Giacomino, che ha uno sguardo audace ma le spalle troppo strette per sostenerlo adeguatamente.

È questo il periodo in cui l’attrice viene usata dal fascismo al potere, che la riempie di promesse non mantenute (in tal senso simbolo di un mondo, quello artistico, che a lungo non riesce a decifrare l’opacità di Mussolini e compagnia); in cui rivede l’antico amante Gabriele D’Annunzio, a causa di un malinteso, convinta che abbia interceduto per farle ottenere un vitalizio, e che invece la schernisce “per non aver saputo riconoscere un attore” nel futuro duce; in cui recupera in parte, e per un breve momento, il rapporto con la figlia Enrichetta (sposatasi in Inghilterra e madre di due bambini), che sempre le ha rimproverato di averla sacrificata sull’altare della recitazione. Alla fine si ribella a tutto e fa a modo suo, contro i pareri medici, i consigli degli amici, le aspettative del governo e quelle della figlia, le sue stesse incertezze, perché convinta che “lo spettacolo deve andare avanti”, dunque impegnandosi in una tournée all’estero (dove sempre fu osannata, nonostante non abbia mai rinunciato a recitare in italiano) che la vedrà infine morire a Pittsburgh, negli Stati Uniti, facendo la cosa che più amava (anche se all’epilogo il film non arriva, fermandosi un po’ prima). Marcello scrive Duse per Valeria Bruni Tedeschi, consegnandole le chiavi del film e il compito di plasmare il personaggio. Tanto da commentare, a posteriori: “Lo abbiamo realizzato in uno stato di grazia, con un’improvvisazione continua, una libertà che ha fatto andare al manicomio la produzione”.

Girato a cent’anni dalla scomparsa dell’attrice nata nel Pavese da genitori teatranti originari di Chioggia, Duse è il quarto lungometraggio di finzione di un autore nato come documentarista, che lavoro dopo lavoro ha costruito uno stile registico e un’estetica molto personali, decisamente riconoscibili, improntati su un montaggio fluido che in questa occasione integra con assoluta naturalezza filmati degli anni Dieci e Venti recuperati dagli archivi con quanto girato appositamente, utilizzando pellicola analogica: il risultato è di un’omogeneità stupefacente, favorita dall’accurata colorizzazione delle immagini d’epoca e dalla fotografia di Marco Graziaplena, che ne richiama gli accenti e la grana, costantemente in equilibrio tra ancoraggi materici e tensioni oniriche. Le scelte narrative, da cui il focus sugli ultimi sei-sette anni della traiettoria esistenziale e artistica della Duse, sono invece funzionali all’idea di raccontare “l’anima di una donna – ha spiegato Marcello stesso alla conferenza stampa veneziana – in un’epoca di grandi sconvolgimenti storici, con la possibilità di indagare temi a me cari: da una parte il ruolo dell’artista di fronte a tragedie come la guerra, la povertà e il dolore; dall’altra, le possibili declinazioni del rapporto tra arte e potere”. L’interpretazione della Bruni Tedeschi è in effetti strepitosa per aderenza e intensità, in una gamma composita che va dall’interiorità nevrotica all’enfasi divistica, con tutte le tonalità intermedie; talmente in simbiosi con il personaggio da intrecciare in un groviglio indistricabile Valeria ed Eleonora e rendere impossibile capire dove finisca l’una e cominci l’altra. Sono di fatto straordinarie almeno due sequenze: quando la Duse illustra a una giovane attrice il retroterra del personaggio che deve recitare in scena, affinché capisca quali emozioni far emergere; quando si cala nei panni del Mangiafoco collodiano con un realismo che spaventa i nipotini, fino a un attimo prima rapiti dal racconto della nonna.

Bruni Tedeschi ha fatto curiosamente ricorso a un’immagine sciamanica per inquadrare il legame venutosi a creare con la Duse: “Ho chiesto a Eleonora di accompagnarmi, di starmi vicino, di coccolarmi, di volermi bene. È un lavoro che faccio spesso con i morti”. Quindi ha aggiunto, approcciando in modo disarmante una materia da seduta spiritica: “Organizzavo delle riunioni con lei, nella mia stanza: non volevo imitarla, quello no, ma diventare sua amica, trovare una connessione intima con lei. Lei piangeva, piangevo anch’io. In un mondo che celebra soltanto i vincitori, mi sembrava bello e importante raccontare la sua fragilità”. Marcello affida la puntualità della ricostruzione soprattutto ai costumi, mentre le scenografie restano più vaghe. E la drammaturgia è consapevolmente adeguata agli elementi che vuol far risaltare, come anche allo spirito libero che pervade la narrazione. Ciò che giustifica lo spazio diffuso accordato al “viaggio” del Milite Ignoto da Aquileia a Roma (storicamente avvenne nel 1921), ma anche la presenza di più evidenti e voluti anacronismi, su tutti il celebre discorso di Mussolini all’insegna del “vincere e vinceremo”, che riecheggia oltre la metà del film e che in realtà non è degli anni Venti, ma del giugno 1940. Geniale, poi, un altro esplicito omaggio al potere della memoria quale forma suprema di insubordinazione: l’introduzione del segretario Giordano come figura di sintesi dei collaboratori più stretti di D’Annunzio, facendolo interpretare allo storico Giordano Bruno Guerri che, da presidente della Fondazione del Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, è da anni il rigoroso custode del lascito del Vate.


